Studio di Psicoterapia e Psicoanalisi
Ogni giorno nella mia pratica clinica incontro individui che si confrontano con il dolore, non solo quello fisico, tangibile, ma anche quello psichico, spesso silente, e quello esistenziale, che si insinua nei momenti in cui la vita perde significato. In quei luoghi interiori, dove la sofferenza interroga le fondamenta dell’identità, si gioca la possibilità di rimanere soggetti del proprio destino, oppure di divenire oggetti della propria storia.
La vicenda di Laura Santi interpella profondamente queste domande. Una donna di 48 anni, con una mente lucida e un pensiero profondo, costretta da oltre vent’anni a un’immobilità assoluta. Inchiodata a un letto, privata di ogni possibilità di movimento, ma non della capacità di sentire, amare, riflettere. Laura non chiedeva di morire: chiedeva di poter scegliere, di preservare la propria dignità nel momento in cui la vita, spogliata da ogni autonomia, si era trasformata in mera sopravvivenza.
Potersi rappresentare come agenti del proprio vivere, anche e soprattutto nei momenti più estremi, significa riconoscersi come soggetti desideranti, capaci di attribuire senso a ciò che si attraversa.
Laura ha scelto, lo ha fatto con lucidità e con amore per sé stessa. Ha deciso di recarsi in Svizzera, dove l’eutanasia è legalmente regolamentata, per porre fine alla sua sofferenza in modo consapevole e dignitoso. La sua non è stata una fuga dalla vita, ma un atto estremo di affermazione di sé. Un ultimo gesto di libertà, nel rispetto della propria storia, della propria identità, della propria umanità.
Nel profondo del dolore esiste sempre una dimensione narrativa: ogni essere umano cerca di raccontarsi una storia che tenga insieme le esperienze, i traumi, le perdite, gli affetti. Quando quella narrazione non è più possibile, quando ogni tentativo di dare senso si scontra con l’impossibilità di immaginare un futuro, allora può emergere la domanda di morire non come rinuncia, ma come scelta estrema di coerenza e integrità.
Laura non ha chiesto pietà. Ha chiesto ascolto. Ha chiesto che la sua volontà fosse accolta come espressione di una soggettività piena, non compromessa dalla sua condizione clinica. Il suo desiderio non era dettato da una fuga, ma da un’esigenza profonda di non lasciarsi definire dalla malattia, di non essere ridotta a un corpo sofferente, di non essere espropriata della propria capacità simbolica e affettiva di decidere.
Particolarmente toccanti, in questo senso, sono le parole del marito di Laura, che racconta: «Mi ha chiesto: vuoi che rimanga un altro po’? Ma io l’ho lasciata andare». In quella domanda c’è tutta la delicatezza del legame, la potenza di un amore che si fa silenzioso compagno di un ultimo gesto di libertà, e in quella risposta c’è il riconoscimento più profondo della soggettività dell’Altro: non trattenere, ma lasciare andare…
Dopo la sua morte, il marito ha dichiarato: «Ho lasciato in sala i suoi vestiti e i suoi libri. Anche se non c’è più, c’è come non mai. Sono contento di questo risultato, ora so che voglio continuare a impegnarmi su questo fronte, in suo nome e in suo onore». È una frase che ci conduce al cuore dell’elaborazione del lutto: i morti non sono davvero morti, se continuano a vivere nel nostro ricordo, nei nostri gesti, nella trama invisibile delle nostre scelte. Il legame con l’oggetto perduto si trasforma, ma non si spezza: si fa interno, psichico, generativo. Continuare a vivere anche per l’Altro, portandolo dentro di sé è uno dei modi più profondi con cui l’amore si declina oltre la soglia della morte.
Il morire, nella nostra società, è spesso negato e spinto ai margini. Eppure si tratta di una fase della vita che richiede presenza psichica, possibilità di scelta, contenimento e riconoscimento. Morire con dignità non è solo un tema giuridico o medico. È prima di tutto una questione relazionale, psicologica, profondamente umana. Significa permettere a chi sta andando via di mantenere il timone della propria storia anche nel momento finale.
Il dolore di Laura, come quello di molte persone che si trovano in condizioni simili, ci interroga non soltanto sul senso della morte, ma anche sul significato della vita. Cosa significa vivere, se non poter scegliere, sentire, agire, amare secondo ciò che ci è più autentico? E cosa significa morire, se non potersi congedare dal mondo in modo coerente con la propria identità?
Difendere il diritto all’eutanasia, nei casi in cui la sofferenza è irreversibile e la qualità della vita è gravemente compromessa, non significa negare il valore della vita, ma onorarlo fino in fondo. Significa riconoscere che la dignità non risiede nel tempo che si sopravvive, ma nella qualità con cui si vive e si sceglie.
Laura Santi ci lascia un’eredità preziosa: una testimonianza autentica di libertà, di coraggio, di soggettività piena. Sta a noi, come clinici, cittadini, esseri umani, fare in modo che la sua voce non venga spenta, che il diritto di scegliere per sé, anche nella morte, possa trovare uno spazio di ascolto, di rispetto, di riconoscimento.
C’è una soglia silenziosa che ogni genitore, prima o poi, è chiamato ad attraversare: la soglia del ritrarsi.
Non è un abbandono, né una resa.
È un atto di fede.
È quell’istante in cui, per amore, lasci che tuo figlio vada dove tu non puoi accompagnarlo.
Massimo Recalcati lo dice con chiarezza disarmante: “Il dono più grande che possiamo fare ai nostri figli non è spiegare la vita, ma dimostrare, con il nostro esempio, che la vita ha un senso.”
Ma quanti, oggi, ci riescono davvero?
Viviamo in un’epoca in cui essere genitori spesso si confonde con il mestiere di manovrare, correggere, prevedere tutto.
E invece amare, davvero amare, significa donare spazio,
non completare il puzzle per loro, ma lasciargli i pezzi in mano.
E magari, mentre inciampano, offrire solo lo sguardo, non la soluzione.
Offrire il dubbio, non il manuale.
Amare è perdere la pretesa di “saperne di più”.
Amare è dire: “Non ti capisco, ma ti rispetto.”
Amare è non aggiustare la vite storta, ma credere che proprio lì, in quella curva, possa nascere qualcosa di irripetibile.
I figli non sono da educare alla normalità.
Sono da amare nella loro diversità incomprensibile.
InFame: la fame dell’anima e il silenzio del corpo.
Ambra Angiolini, attrice, conduttrice e figura pubblica molto amata, ha scelto di raccontare nel suo libro InFame l’esperienza della bulimia vissuta in giovanissima età.
È una storia che parla di corpo, di fame e di invisibilità, ma soprattutto di quel tentativo disperato di esistere e di farsi sentire attraverso il cibo, o meglio, attraverso il suo abuso.
Ambra, oggi impegnata in campagne di sensibilizzazione, offre così uno spazio prezioso: un luogo simbolico nel quale il dolore può trovare una parola, e dove il sintomo, per anni vissuto come vergogna, diventa un ponte tra Sé e l’Altro
Ma che cos'è davvero la bulimia?
Non è semplicemente un disturbo legato al cibo, né un problema di forza di volontà.
La bulimia è un sintomo. È una risposta che il corpo fornisce quando la mente non riesce a elaborare una sofferenza più profonda; una sofferenza che spesso non ha nome, che non trova parole, ma che insiste, si agita, preme, e quando non trova un luogo mentale in cui depositarsi, scivola nel corpo: il corpo allora diventa il teatro muto di un conflitto psichico, ciò che non può essere pensato, viene agito.
In questo senso la bulimia non parla solo di fame di cibo, ma di fame d’amore, di riconoscimento, di senso. Il soggetto bulimico si muove in una relazione ambivalente con il cibo: lo desidera, lo ingurgita, poi lo rigetta. È un movimento che riflette la difficoltà a contenere emozioni troppo intense, desideri confusi, angosce profonde. Il cibo come oggetto transitorio, illusoriamente capace di colmare un vuoto interno che però è incolmabile con ciò che è materiale.
Dal punto di vista psicoanalitico il sintomo alimentare si inserisce laddove manca una funzione simbolica: il soggetto non riesce a trasformare l’esperienza emotiva in rappresentazione e quindi in pensiero.
Il dolore psichico, non potendo essere mentalizzato, viene evacuato nel corpo. Ed è in questa dinamica che il cibo assume un ruolo paradossale: è insieme nutrimento e veleno, carezza e punizione, compagnia e minaccia. È un oggetto “che non tradisce” ma che allo stesso tempo, distrugge.
Il vuoto che si tenta di riempire con il cibo non è un semplice buco nello stomaco, ma è un’assenza che si avverte nell’identità, nel valore personale, nella possibilità di esistere per l’Altro.
Il soggetto bulimico spesso ha vissuto esperienze in cui la propria soggettività non è stata riconosciuta o contenuta, non è stato visto, ascoltato, pensato.
Di fronte a questa carenza originaria si costruisce una modalità di sopravvivenza che passa attraverso il corpo: un corpo che si ingozza per anestetizzare, riempire, sentire qualcosa e che poi si svuota, come a ripetere il gesto originario dell’essere lasciati soli.
La bulimia, allora, può essere letta come un tentativo disperato di sopravvivere a una “mancanza-vuoto” che il soggetto non riesce a sostenere. È una risposta primitiva che chiede ascolto e che può trovare una via di trasformazione solo quando incontra un Altro capace di accogliere, contenere e dare senso.
La guarigione non è mai immediata, né lineare, passa dalla possibilità di dare senso alla propria storia, di trasformare il sintomo in parola, di non restare soli nel dolore.
In un mondo che spinge alla performance e all’immagine, il corpo diventa l’ultimo rifugio dove urlare ciò che non può essere detto, ma laddove c’è parola, comprensione e spazio psichico, il sintomo può cedere il passo a una nuova costruzione di sé ed è lì che può iniziare la vera libertà.
Andy Byron, ex amministratore delegato della società tecnologica statunitense Astronomer, si è dimesso dopo essere stato ripreso dalla kiss cam durante un concerto dei Coldplay. Accanto a lui, Kristin Stanek Cabot, dipendente della stessa azienda. Non un gesto eclatante, non un’azione sconveniente: solo un abbraccio, un atteggiamento affettuoso e tenero tra due adulti, nel loro tempo privato. Eppure, è bastato questo per dare inizio a un ciclone mediatico che ha travolto le loro vite.
Non entriamo nel merito morale della vicenda, né ci interessa formulare giudizi su relazioni sentimentali nate in contesti professionali. Ognuno ha il diritto di vivere la propria affettività nel rispetto della propria libertà e dei propri confini interiori. Ciò che invece ci interroga, come psicologi e come cittadini, è il modo in cui un gesto intimo — non inteso per la scena pubblica — possa diventare l’innesco per una gogna mediatica.
Un abbraccio tra due persone è diventato “notizia”, è stato rilanciato sui social, commentato, analizzato, discusso. In un tempo in cui la spettacolarizzazione della vita è diventata la norma, la possibilità di vivere momenti propri, personali, liberi dallo sguardo altrui, sembra sempre più compromessa.
La psiche umana ha bisogno di uno spazio interno protetto, in cui l’individuo possa sentirsi libero di desiderare, esprimere affetto, mostrarsi vulnerabile. Quando questo spazio viene violato, la persona viene privata di una parte essenziale della propria libertà interiore. Non si tratta di un semplice “imbarazzo”, ma di un vero e proprio trauma da esposizione forzata, in cui l’individuo viene costretto a vedersi dall’esterno, giudicato, frainteso.
Andy Byron e Kristin Stanek Cabot hanno visto crollare le loro posizioni lavorative e, con esse, la propria reputazione. Ma ciò che colpisce più profondamente è la violenza invisibile ma devastante dell’essere trasformati in oggetto di osservazione pubblica senza consenso, in un contesto che nulla aveva a che vedere con la sfera professionale.
Non è l’abbraccio il problema. È lo sguardo che invade, che non si ferma davanti a nulla, che pretende di vedere e sapere tutto. È l’assenza di uno spazio inviolabile, di un limite tra la persona e la scena pubblica. È la deriva di una società che si nutre di immagini, e che troppo spesso dimentica che dietro ogni immagine ci sono vite, emozioni, storie complesse.
Il diritto all’intimità non dovrebbe mai essere negoziabile. E nessuno, per quanto visibile o influente, dovrebbe essere costretto a pagare il prezzo di un momento umano vissuto in uno spazio che credeva sicuro.
#byron #coldplay #kisscam #astronomer #psicologia #privacy #libertàaffettiva #societàdelcontrollo #psicologiacondivisa
A.Byron, ex amministratore delegato della società tecnologica statunitense Astronomer, si è dimesso dopo essere stato ripreso dalla kiss cam durante un concerto dei Coldplay. Accanto a lui, K. Cabot, dipendente della stessa azienda. Nessun gesto eclatante, solo un abbraccio, un atteggiamento affettuoso tra due adulti, nel loro tempo privato. Eppure, è bastato per dare inizio a un ciclone mediatico che ha travolto le loro vite.
Non entriamo nel merito morale della vicenda, né giudichiamo le dinamiche affettive nate in ambito lavorativo. Ognuno ha diritto a vivere la propria affettività nel rispetto dei propri confini interiori. Ciò che ci interroga, come psicologi e cittadini, è come un gesto intimo, non destinato alla scena pubblica, possa trasformarsi in una gogna collettiva.
Un abbraccio è diventato “notizia” rilanciato sui social, commentato, analizzato. Viviamo in una società in cui la spettacolarizzazione della vita sembra annullare il diritto all’intimità. Eppure, la psiche ha bisogno di uno spazio protetto, dove potersi mostrare senza timore, amare, desiderare, essere vulnerabili.
Quando questo spazio viene violato, la persona subisce una ferita invisibile, ma profonda. Si parla spesso di privacy, ma troppo poco di pudore psichico, di libertà affettiva, di dignità.
Byron e Cabot hanno perso il lavoro, ma soprattutto il controllo sul proprio vissuto. Non è l’abbraccio il problema, ma lo sguardo che invade, pretende, giudica. È la deriva di una società che consuma immagini, dimenticando che dietro ogni volto ci sono vite, emozioni, storie complesse.
Ed è proprio per coerenza con quanto qui espresso che ho scelto di non utilizzare la foto resa pubblica di quel momento: perché non è mostrando quei volti che possiamo tutelare la dignità di chi è stato esposto senza volerlo.
La testimonianza di Achille Costacurta che definisce la propria esperienza di tossicodipendenza come un autentico “inferno”, costituisce un importante punto di partenza per riflettere sulle complesse dinamiche psicologiche sottese al consumo di sostanze in adolescenza.
Questa confessione, intensa e drammatica, consente di superare alcuni luoghi comuni, ampliando la comprensione di un fenomeno multidimensionale che coinvolge aspetti individuali, familiari e sociali. Questo racconto, potente e drammatico, offre un’occasione preziosa per riflettere sulle complesse dinamiche psicologiche che sottendono il consumo di sostanze in giovanissima età, sfatando alcuni luoghi comuni e ampliando la comprensione di un fenomeno drammatico che coinvolge molti giovani di oggi.
È fondamentale sottolineare che la tossicodipendenza in adolescenza non è riconducibile a fattori legati al ceto sociale: come emerge chiaramente dalla vicenda di Costacurta, la sofferenza mentale, il disagio psichico e la ricerca di sollievo da un malessere profondo non risparmiano alcun segmento della popolazione, né sono appannaggio esclusivo di contesti economicamente svantaggiati. Gli esseri umani, a prescindere dalla loro collocazione socioeconomica, condividono le medesime fragilità psichiche, e la sofferenza può attraversare chiunque. L’esperienza di Costacurta rivela un aspetto cruciale: essere figli di genitori ricchi e famosi non costituisce necessariamente un fattore protettivo, anzi, può trasformarsi in un elemento aggravante. In termini psicoanalitici, la presenza di genitori “ingombranti”, dotati di un forte successo e visibilità pubblica, può generare nel figlio una condizione di schiacciamento identitario. Il giovane può sentirsi oppresso dalla figura paterna “inquieta” o idealizzata, sentendo il bisogno profondo di affermarsi come soggetto separato e autonomo per non rimanerne soffocato. Questo tentativo di superamento, che in sé è un passaggio evolutivo naturale e necessario, può però trasformarsi in un terreno fertile per una crisi esistenziale, caratterizzata da un forte senso di inadeguatezza, disperazione e, talvolta, da un agito autodistruttivo quale la dipendenza da sostanze. Questa dinamica non è un caso isolato. Si possono richiamare altri esempi emblematici, come la vicenda di Aurora Ramazzotti o quella di Angelina Mango, due personalità che hanno vissuto sofferenze psichiche profonde in un contesto di elevata visibilità e successo, a dimostrazione di quanto la ricchezza e la fama non siano sinonimi di benessere psicologico. Questi casi sottolineano la complessità del rapporto tra contesto familiare, identità personale e sofferenza mentale. Nel racconto di Costacurta emerge con forza il vissuto di un ragazzo che, sin dalla prima adolescenza, si è trovato intrappolato in un “inferno” personale: un’esperienza di vuoto, ansia opprimente, senso di estraneità e alienazione da sé e dal mondo circostante. L’uso di sostanze, inizialmente percepito come una via di fuga e un modo per “staccarsi” da una realtà dolorosa e incomprensibile, si è rapidamente trasformato in un meccanismo di dipendenza che ha progressivamente compromesso la sua esistenza e la sua capacità di relazione. Dal punto di vista psicoanalitico, le sostanze assumono spesso una funzione consolatrice e benefica che apparentemente accarezza e allevia il dolore, ma che in realtà annienta progressivamente l’integrità psichica del soggetto.
La dipendenza da mescalina e da altre sostanze ha rappresentato per Costacurta una forma di anestesia emotiva, una protezione contro il dolore intollerabile, ma allo stesso tempo una prigione da cui è stato difficile uscire. La svolta terapeutica si è manifestata proprio nel momento in cui, attraverso il percorso terapeutico e l’appoggio familiare, il ragazzo ha potuto accedere al silenzio necessario per incontrare e riconoscere il proprio dolore autentico, quello nascosto sotto la maschera dell’agito e della negazione. Qui si colloca il valore imprescindibile della famiglia, che, pur nella propria sofferenza, ha rappresentato un ancoraggio fondamentale per il processo di cura. La figura materna, definita “roccia” nel racconto, e il padre, capace di crollare e rialzarsi, incarnano la funzione contenitiva necessaria per la rielaborazione del trauma e per la costruzione di una nuova identità. Dal punto di vista clinico, il percorso di Costacurta evidenzia l’importanza cruciale della terapia e della ricostruzione del legame affettivo come strumenti insostituibili nella prevenzione e nel trattamento della tossicodipendenza. La terapia consente di accedere alle emozioni senza filtri, di elaborare le ferite interiori e di recuperare la capacità di vivere una vita piena e autentica. Oggi, la scelta di vivere in un ambiente come Palermo, che gli offre un senso di accoglienza e appartenenza, rappresenta un elemento terapeutico non trascurabile: il luogo diventa simbolicamente un “contenitore” che favorisce il processo di guarigione, consentendo al soggetto di respirare e di riconnettersi con una dimensione di umanità e relazione autentica. La testimonianza di Costacurta ci invita a superare giudizi superficiali e stigmatizzazioni, a riconoscere la profondità della sofferenza psichica che può attraversare qualunque individuo, e a valorizzare la funzione salvifica della cura, dell’ascolto e dell’amore. In questo senso, essa rappresenta un richiamo forte alla necessità di un approccio comprensivo e psicoanaliticamente orientato nella presa in carico delle dipendenze adolescenziali.
Se nella vita esistono circostanze e condizioni che sfuggono al nostro controllo, è fondamentale imparare a fare i conti con ciò che non possiamo modificare. Resistere con tenacia all’inevitabile crea solo frustrazione: come onde che si infrangono continuamente contro uno scoglio, il nostro sforzo ripetuto si traduce in stanchezza e senso di #impotenza .
#accettare non significa rassegnarsi, bensì riconoscere la realtà per quella che è e trovare, al suo interno, uno spazio di crescita. Nel mio lavoro di psicoterapeuta ho spesso visto pazienti impegnarsi in una battaglia contro eventi irrecuperabili, la perdita di una persona cara, una malattia cronica, un cambiamento professionale inatteso e consumarsi nell’illusione di poter tornare indietro. In questo modo, però, sprecano preziose energie emotive, negandosi l’opportunità di trasformare il #dolore in risorsa.
Imparare ad accettare significa anzitutto ricollegarsi alla propria esperienza interiore: lasciare che le emozioni emergano senza giudizio, esplorarle con curiosità e dar loro parola, fino a integrarle nella propria narrazione. Non si tratta di eliminare la sofferenza, ma di cambiare prospettiva, trasformando il “non posso cambiare” in un punto di partenza per mettere a fuoco ciò che dipende da noi: le reazioni, le scelte quotidiane, il modo in cui costruiamo nuovi obiettivi.
Accettare ciò che non si può cambiare non è una rinuncia, ma un gesto di grande responsabilità verso la propria vita. Significa liberarsi dal peso dell’insoddisfazione per affrontare ogni giornata con maggiore leggerezza: rimangono i nostri valori, le relazioni autentiche, i progetti che possiamo costruire mattone dopo mattone. E in questo spazio di accoglienza interiore, l’energia liberata diventa il motore di nuovi orizzonti, perché, paradossalmente, soltanto chi sa accettare trova la vera forza per trasformare la propria #esistenza .
Ascoltando la radio questa mattina, sono rimasta colpita dai commenti di alcuni ascoltatori che si soffermavano sulla decisione di un gruppo di maturandi di non presentarsi all’esame orale di Stato. La scelta, configurata come protesta contro un clima scolastico giudicato ormai eccessivamente competitivo, ha suscitato opinioni vivaci e talvolta provocatorie, tutte convergenti su un unico punto: il disagio di chi si sente schiacciato da un sistema che sembra premiare la prestazione a danno della persona.
Il mio rapporto con la scuola è costruito su una lunga esperienza professionale: prima come docente in vari ordini di istruzione, poi come psicologa scolastica all’interno di istituti comprensivi, e infine come madre. Questo triplice sguardo mi ha permesso di cogliere non solo le evoluzioni positive, ma anche il progressivo deterioramento di ciò che una volta era una comunità educante. In passato, la scuola era un luogo di scoperta e riflessione, dove l’errore costituiva parte integrante del percorso di apprendimento. Oggi, invece, l’urgenza di ottenere risultati misurabili ha trasformato l’insegnamento in una sorta di performance a scadenza: si producono test, si compilano graduatorie, si rincorrono indici di valutazione d’istituto, in una logica aziendale che nulla ha a che vedere con la crescita dei singoli.
In questo contesto gli insegnanti sono tra i primi a risentire di una pressione perenne. Molti vivono un forte senso di frustrazione e impotenza, dovendosi confrontare ogni giorno con obiettivi “burocratici”, progetti e progettini spesso lontani dalla didattica autentica, che sottraggono tempo e risorse alla relazione educativa. L’aggressività che talvolta emerge nel loro comportamento va letta come un meccanismo difensivo, una reazione alla competizione esasperata che impone di guardare al voto anziché allo studente. Anche i dirigenti scolastici sono spesso formati esclusivamente alla logica del risultato, quasi sempre tradotto in numeri e percentuali: punteggi da migliorare, classifiche da scalare, con il conseguente circolo vizioso in cui la qualità dell’apprendimento diventa secondaria rispetto ai punteggi di uscita.
Da parte loro, i ragazzi si ritrovano immersi in una cultura del “fare bene” che coincide con l’ottenimento di voti elevati. Il risultato è una crescente ansia da prestazione, l’innesco di dinamiche competitive tra pari e un diffuso senso di frustrazione: non si apprende per il gusto di conoscere, ma per dimostrare di saper “produrre” risultati adeguati alle statistiche scolastiche. Così la scuola smette di essere uno spazio educativo e relazionale, trasformandosi in una “piccola azienda” in cui la dimensione umana e creativa viene progressivamente sacrificata sull’altare dell’efficienza.
Nel mio lavoro di psicoterapeuta incontro spesso adolescenti che vivono questa condizione come un peso insopportabile: il tempo per lo sport, per gli amici, per l’amore, per la famiglia, persino per la noia, essenziale all’elaborazione interiore, viene quasi del tutto annullato. Il bisogno di spegnere la mente diventa impellente e il rifugio più immediato è il mondo social o l’immersione nel web, con il cellulare sempre a portata di mano. Queste fughe virtuali, però, rischiano di alimentare ulteriormente isolamento e dipendenza, senza offrire vera consolazione.
È dunque evidente che il problema non risiede nei ragazzi, ma nella cultura adulta che ha eretto questo modello di scuola. La crisi dell’istruzione riflette la crisi del nostro mondo: un mondo che misura il valore delle persone in base a numeri, classifiche e percentuali. Recuperare la funzione originaria della scuola, restituendo centralità alla relazione e al processo di crescita, non è un’utopia, ma un’urgenza. Serve una responsabilità collettiva che coinvolga famiglie, insegnanti, dirigenti e istituzioni: ripensare la scuola come comunità educante significa investire sul futuro, mettendo al centro non più la prestazione, ma la persona, con i suoi tempi, i suoi errori e le sue potenzialità.
Solo così potremo restituirle il ruolo che le spetta: non la fabbrica di voti, ma il laboratorio in cui si coltiva la curiosità, si sperimenta la creatività e si costruiscono le basi di una cittadinanza consapevole.
14 luglio 2016 / 14 luglio 2025
Nove anni fa, a Nizza, la festa nazionale francese fu trasformata in tragedia: un attentato terroristico spazzò via 86 vite e ne ferì centinaia. Quel camion lanciato sulla folla durante i fuochi d’artificio lasciò dietro di sé sangue, terrore e silenzio.
Oggi ricordiamo le vittime, le loro famiglie, ma anche tutti coloro che da quel giorno non sono più gli stessi.
Il terrorismo è una forma estrema di disumanizzazione. L’atto terroristico suicida non nasce solo da fanatismo, ma spesso da una psiche fratturata, pervasa da distruttività cieca, che si aggrappa a ideologie totalizzanti per giustificare l’annientamento dell’Altro e ottenere visibilità attraverso la violenza. È l’esplosione drammatica di un’identità fragile che, nel distruggere l’Altro, tenta di affermare se stessa.
Per le famiglie di chi è morto, il trauma è un vuoto che non si colma: la perdita improvvisa e violenta di un figlio, di una madre, di un fratello, di un amico, lascia la psiche in uno stato di frattura. Il dolore si annida nel quotidiano, nella mancanza, nella memoria che non trova pace.
Ma le vittime purtroppo non sono solo i morti.
Tra i sopravvissuti molti sono rimasti “illesi” nel corpo, ma profondamente feriti nella mente. Chi ha vissuto quell’esperienza, chi ha corso, ha visto i corpi, ha sentito le urla, può sviluppare un trauma psichico complesso. La mente, sopraffatta da un evento che supera ogni possibilità di simbolizzazione, resta intrappolata nella ripetizione, nell’angoscia, nell’iperallerta. I ricordi invadono, i suoni ritornano, la vita si spezza in un prima e un dopo.
Il trauma non elaborato paralizza il pensiero, impedisce il sonno, mina la fiducia nell’altro e nel mondo. È una ferita che continua a sanguinare anche quando tutto appare “passato”. In terapia, si lavora per restituire senso, parola e contenimento a ciò che è stato indicibile.
Oggi, ricordare significa anche dare dignità a queste ferite invisibili.
La memoria è cura.
Il dolore condiviso è resistenza alla disumanità.
Alle vittime, ai sopravvissuti, a chi ancora porta dentro il rumore di quella notte: vi pensiamo. E vi portiamo con noi.
Iolanda Gaeta
Il dolore mentale è una forma di sofferenza invisibile, spesso più lancinante di quella fisica. Non lascia lividi sulla pelle, ma segna profondamente l’identità. Si nutre di emozioni intense come la vergogna, la colpa, l’umiliazione, il senso di sconfitta, la solitudine, il rifiuto. Emozioni che, quando non vengono comprese né accolte, si stratificano nel mondo interno, dando vita a un dolore che può diventare insopportabile.
Tutti, nel corso della vita, incontrano esperienze emotive che mettono in crisi il proprio equilibrio psichico. A fare la differenza non è l’assenza di sofferenza, ma la posizione che ciascuno assume di fronte ad essa. Quando il dolore mentale non viene riconosciuto o viene negato, può trasformarsi in un vissuto perturbato: un disagio diffuso, caotico, privo di senso, che invade il pensiero, altera le relazioni, rende difficile persino abitare il proprio corpo.
In questi momenti ciò che salva è la possibilità di avviare un dialogo intimo con se stessi. Un lavoro interiore di ascolto e riflessione che permetta di nominare la sofferenza, darle forma e significato. Non si tratta di “superare” il dolore, ma di attraversarlo, imparando a stare con ciò che fa male senza esserne travolti.
La mente ha bisogno di spazi per elaborare ciò che ferisce. La psicoterapia può offrire un contenitore sicuro in cui far emergere la propria verità emotiva, senza giudizio né fretta di guarigione. Perché anche il dolore, se accolto e pensato, può diventare un motore trasformativo.
La metamorfosi di Franz Kafka è un racconto simbolico e perturbante che interroga profondamente il concetto di identità, il ruolo della famiglia e il senso di alienazione nell’individuo. La trasformazione di Gregor Samsa in insetto rappresenta, in chiave psicoanalitica, il crollo dell’Io sotto il peso di un Super-Io schiacciante e di un ambiente familiare oppressivo. Gregor, figura sacrificata sull'altare del dovere filiale e del lavoro, perde letteralmente la propria forma umana nel momento in cui non è più in grado di svolgere la funzione utile agli altri. La famiglia, invece di accoglierlo nella sua fragilità, lo rifiuta progressivamente. Il padre, figura autoritaria e punitiva, lo colpisce e lo rinchiude: è l'incarnazione di un Super-Io rigido e violento, incapace di tollerare la diversità. La madre si muove tra pietà e rifiuto, sospesa in una posizione ambivalente tipica di chi è emotivamente dipendente e incapace di opporsi all’autorità. Grete, la sorella, inizialmente empatica e premurosa, rappresenta l’Io che tenta un adattamento, ma che alla fine soccombe al conformismo e alla pressione del gruppo familiare, rinnegando il legame affettivo con Gregor per tornare a una presunta normalità.
In chiave contemporanea, La metamorfosi parla dell’esclusione dell’individuo che non risponde più alle aspettative sociali e familiari. Il corpo mostruoso di Gregor è l’incarnazione della depressione, del disagio psichico che deforma l’identità fino all’invisibilità. Kafka anticipa il destino di chi, oggi, non riesce a “funzionare” secondo i criteri di produttività e successo: la sua condizione diventa insostenibile non solo per sé, ma per la rete affettiva che, anziché comprendere, respinge.
Il racconto è quindi una potente allegoria dell’abbandono, della vergogna e del silenzioso annientamento di chi non è conforme, mostrando quanto l’indifferenza familiare possa essere più disumanizzante della metamorfosi stessa.
Per un figlio, la separazione dei genitori può rappresentare una perdita dolorosa e destabilizzante in quanto la coppia genitoriale costituisce il primo contenitore affettivo,l’impalcatura su cui si fonda il senso di sicurezza, appartenenza e coerenza del mondo. Quando tale struttura si rompe, il minore può percepire un crollo interno che prende la forma del trauma non solo per ciò che accade, ma per come viene vissuto, narrato o taciuto.Il modo in cui la separazione viene elaborata varia in base all’età e allo stadio evolutivo. Nei primi anni di vita, il bambino ancora incapace di decentrarsi tende a vivere la separazione come qualcosa di cui è responsabile: la fantasia di colpa, “è successo perché sono stato cattivo” può consolidarsi radicando vissuti di indegnità o paura di essere abbandonato. In età scolare il bambino ha maggiore accesso al pensiero logico, ma non sempre alle emozioni complesse che accompagnano la separazione. Può esprimere il dolore attraverso somatizzazioni, regressioni comportamentali o disturbi della condotta. La speranza che i genitori tornino insieme resta viva, alimentata da un bisogno di riunificazione dell’unità familiare originaria.Durante l’adolescenza la separazione può intensificare i conflitti identitari tipici di questa fase. L’adolescente può sentirsi chiamato a “scegliere” e a sviluppare alleanze rigide con un genitore o assumere un ruolo genitoriale verso fratelli minori o lo stesso genitore ferito. Le #emozioni spesso non elaborate, rabbia, vergogna, senso di impotenza, possono manifestarsi in comportamenti oppositivi, ritiro sociale o difficoltà scolastiche.
L’elaborazione della separazione dipende da come essa viene contenuta e mentalizzata. Quando i #genitori riescono a mantenere una comunicazione rispettosa e a preservare la #funzionegenitoriale pur nella distanza, aiutano il figlio a non perdere #fiducia nelle #relazioni e a non frammentarsi interiormente. Separarsi non è un #fallimento , ma può diventare un atto di responsabilità quando orientato alla tutela del benessere dei #figli e alla salvaguardia della sua continuità affettiva.
José Saramago, con L’uomo duplicato, costruisce un’opera perturbante che interroga l’identità personale. Come in altre sue narrazioni, l’autore affronta temi esistenziali profondi adottando uno stile riconoscibile: frasi ampie, punteggiatura essenziale, tono riflessivo.
Il protagonista, Tertuliano Máximo Afonso, è un insegnante di storia dalla vita piatta e priva di slanci. Un giorno guardando un film, scopre un attore identico a lui: António Claro. Inizia così una ricerca ossessiva del doppio che culmina in uno scambio d’identità e in un confronto carico di tensione, fino a esiti drammatici.
In un’ottica psicoanalitica, il doppio rappresenta l’irruzione del rimosso e dell’inconscio nella vita cosciente. Tertuliano è un uomo alienato, la cui identità vacilla di fronte alla minaccia della propria intercambiabilità: la presenza dell’Altro sé, uguale ma indipendente, dissolve le certezze dell’Io. Si fa strada così l’angoscia dell’anonimato e della sostituibilità: se non sono unico, chi sono?
Il romanzo mette in scena la crisi dell’identità moderna, scardina l’illusione di un sé stabile e irripetibile.
In lontananza si coglie una critica alla società contemporanea in cui l’identità appare fragile, moltiplicata, replicabile. Il doppio diventa anche metafora dell’uomo postmoderno, smarrito tra ruoli, immagini e narrazioni che lo confondono.
L’uomo duplicato è un romanzo che apre una riflessione radicale sul Sé e sulla paura della perdita di autenticità. Saramago non fornisce risposte, ma mostra la tensione profonda tra desiderio di coerenza e l’inquietudine di non sapere mai davvero chi siamo.
Nel corso dello sviluppo psichico il soggetto interiorizza le figure genitoriali con le loro istanze normative, i loro desideri e, inevitabilmente, le loro fragilità e i loro limiti.
Giunto alla soglia dell’età adulta diviene compito del soggetto stesso riconoscere come tali istanze interiorizzate possano condizionare, in modo inconsapevole, le proprie scelte, il proprio desiderio e il proprio progetto di vita.
Continuare ad attribuire alla figura genitoriale (reale o interiorizzata) la responsabilità delle proprie difficoltà conduce a un immobilismo psichico intriso di rancore e risentimento che finisce per ostacolare il processo di individuazione. La crescita autentica implica invece il superamento della colpevolizzazione sterile e l’assunzione della responsabilità della propria esistenza.
Assumersi la responsabilità del proprio percorso significa riconoscere e deviare dagli errori inconsapevoli che i genitori possono aver commesso nel determinare, in parte, il nostro destino evitando in questo modo di restarvi prigioniero; significa vincere la paura del cambiamento e dell’ignoto; significa sfidare il giudizio del genitore interiorizzato che ancora può bloccare la piena realizzazione soggettiva; significa provare a seguire il proprio desiderio più autentico.
La psicoanalisi si propone proprio questo di obiettivo: consentire al soggetto di elaborare il legame inconscio con il genitore interiorizzato spezzando quelle catene invisibili che ne vincolano le scelte per favorire un processo di autonomia responsabile orientato verso il proprio benessere e la propria realizzazione personale.
#crescitapersonale #psicoanalisi #desiderio
Una unione solida non rappresenta soltanto un legame tra due adulti, ma costituisce una matrice fondamentale per lo sviluppo psichico dei figli.
La coppia genitoriale che sa mantenere un’unione stabile e affidabile offre al bambino un ambiente relazionale caratterizzato da continuità, coerenza e sicurezza.
Tali caratteristiche non si limitano a garantire una quotidianità priva di tensioni, ma forniscono una base affettiva che il bambino interiorizza come modello di affidabilità e prevedibilità. È proprio questa esperienza precoce a consentire la costruzione di una mente capace di fidarsi e di percepire il mondo come un luogo sufficientemente sicuro.
Un aspetto essenziale della solidità di coppia e/o coniugale risiede nella capacità di entrambi i partner di affrontare le difficoltà, tollerare il conflitto e giungere alla riparazione del legame.
Il bambino osserva e interiorizza come i genitori si confrontano, come riescono a perdonarsi e a ritrovare un equilibrio dopo il disaccordo. Questo processo rappresenta un potente modello identificatorio: offre l’esempio di come i legami possano attraversare momenti di crisi senza frantumarsi, trasmettendo così l’idea che la relazione possa essere un luogo in cui è possibile essere sé stessi, sbagliare e ritrovare l’Altro.
Per raggiungere e mantenere tale stabilità, è fondamentale che la coppia, nei momenti di crisi, si impegni a comprendere a fondo ciò che sta accadendo nella relazione.
Spesso, infatti, le tensioni coniugali possono derivare da proiezioni inconsapevoli sul partner di aspetti legati alle proprie relazioni oggettuali interiorizzate, in particolare quelle con le figure genitoriali. Solo un lavoro di consapevolezza che permetta di distinguere ciò che appartiene alla relazione attuale da ciò che attiene al proprio mondo interno consente di affrontare le difficoltà in modo autentico. Ed è solo dopo avere accertato l’assenza di confusione tra la relazione coniugale presente e i legami interiorizzati con i propri genitori che, pur nella consapevolezza del valore della solidità del legame, può essere pensato, con maturità, anche l’eventuale separazione come esito inevitabile di un percorso già profondamente esplorato.
Nel panorama contemporaneo, il ruolo genitoriale è attraversato da una profonda ambivalenza. I genitori si trovano spesso esposti a una molteplicità di messaggi educativi, tra loro contraddittori: da una parte si esortano a promuovere la libertà del bambino, la sua autenticità e la sua capacità di autoregolarsi; dall’altra si richiama l’importanza della fermezza, dei confini e della funzione normativa. In questa altalena tra permissività e autoritarismo, si rischia di perdere la direzione fondamentale dell’educazione: quella di accompagnare i figli nel loro processo di soggettivazione, attraverso la relazione.
Non è infrequente imbattersi in indicazioni pedagogiche che, seppur mosse da buone intenzioni, rischiano di disorientare profondamente. Affermazioni come “non si deve pretendere nulla dai figli”, “non si deve mirare alla promozione o all’eccellenza”, “bisogna premiare a prescindere dai risultati scolastici” veicolano un’idea distorta della genitorialità. Più che promuovere l’accoglienza dell’individualità del figlio, queste prescrizioni rischiano di scivolare in una rinuncia alla funzione educativa, intesa come trasmissione di valori, orientamento, e contenimento psichico.
Nessun soggetto si autoregola spontaneamente: l’autoregolazione, ovvero la capacità di tollerare la frustrazione, di differire il soddisfacimento immediato, di confrontarsi con la realtà, è una conquista evolutiva che si costruisce solo all’interno della relazione con l’Altro significativo. È nella relazione con il genitore, o con l’adulto responsabile, che il soggetto interiorizza progressivamente le regole del vivere comune, apprende il senso del limite, e sviluppa una responsabilità personale.
In questa cornice, anche la scuola riveste un ruolo fondamentale: è il primo contesto sociale in cui il bambino si confronta con una realtà altra dalla famiglia, regolata da norme condivise, da ruoli definiti, da attese chiare. Non è pensabile escludere la scuola da questo processo formativo o sminuire la sua funzione contenitiva. Anzi, è proprio nella scuola che i bambini e gli adolescenti iniziano a sperimentarsi come soggetti responsabili: non tanto per ottenere voti alti o per eccellere, quanto per imparare a rispondere delle proprie azioni, del proprio impegno, del proprio tempo. Essere promossi, in questo senso, non è una questione di prestazione, ma di presenza. È il segno che il soggetto ha assunto la responsabilità del proprio compito, nei limiti delle sue possibilità. Una “media” potrà certamente essere costruita nel tempo, in base alle inclinazioni personali, ma ciò che è necessario trasmettere è il valore del percorso, non l’evitamento delle richieste. La promozione, simbolicamente, rappresenta la capacità del soggetto di occupare il proprio posto all’interno di un sistema di regole, senza che l’adulto si sostituisca a lui. Su questo punto si concentra uno degli scogli più complessi della genitorialità odierna: la tendenza a sostituirsi ai figli: quando i genitori si fanno carico delle responsabilità scolastiche dei figli, svolgendo i compiti, intervenendo nei conflitti con insegnanti, negoziando voti e risultati, impediscono, di fatto, lo sviluppo di un senso di competenza e autonomia. Così facendo, anche se mossi da desiderio di protezione o paura del fallimento, si indebolisce il Sé del bambino, che non può costruire una fiducia interna nelle proprie risorse. In questo quadro, la funzione genitoriale deve tornare ad essere quella di guida affettiva e normativa, capace di coniugare ascolto e contenimento, libertà e responsabilità. Non si tratta di esercitare un potere coercitivo, né di abdicare alla funzione educativa in nome di un’idea assolutizzata di libertà: educare è un atto profondamente relazionale e trasformativo, che implica presenza, coerenza, e capacità di sostenere la frustrazione dell’altro, anche quando questo significa non accondiscendere a ogni desiderio.
I figli hanno bisogno di adulti che indichino una direzione, che offrano un modello identificatorio sufficientemente stabile. Hanno bisogno di confrontarsi con regole che, pur potendo essere discusse, non vengono vissute come arbitrariamente revocabili. È proprio all’interno di questa cornice di senso che il soggetto può scoprire, senza paura, la propria individualità e imparare a stare nel mondo.
Il recente successo di Sara Errani e Jasmine Paolini al Roland Garros, nel doppio femminile, offre uno spunto prezioso per riflettere su cosa significhi oggi per una #donna realizzarsi, affermarsi, desiderare.
Nel panorama culturale attuale, spesso dominato da ideali di successo immediato, visibilità e prestazione, colpisce la loro vittoria silenziosa, frutto di anni di disciplina, tenacia, dedizione e capacità di tollerare la frustrazione. Non parliamo di una conquista narcisistica, cercata per rispondere all’ideale dell’Io, ma di un percorso di soggettivazione, dove il desiderio è stato mantenuto vivo nel tempo e trasformato in azione costante, senza bisogno di esibizione.
Potremmo dire che ciò che ha permesso loro di raggiungere questo traguardo non è la ricerca compulsiva dell’approvazione, ma la capacità di sublimare le proprie energie psichiche in un progetto condiviso, nel rispetto dell’Altro, qui rappresentato dalla relazione di coppia sportiva. La loro alleanza diventa così simbolo di una forma di legame non fusionalmente dipendente, ma basato sulla reciprocità, sulla fiducia e sull’ascolto.
Errani e Paolini ci ricordano che il femminile non si definisce necessariamente attraverso l’immagine o il consenso, ma può esprimersi come forza interna, come desiderio che non si esaurisce nella gratificazione immediata. Sono un esempio di come si possa costruire una posizione soggettiva solida, in cui l’Io non cede all’impulso, ma lavora, attende, costruisce.
Questo modello, per molte giovani donne, e non solo, può rappresentare una forma di identificazione alternativa rispetto a quelle più fragili o alienanti. Un modello che non nega la fatica, ma che insegna a trasformarla in senso, a dare valore al tempo lungo della costruzione e al piacere che nasce non dal risultato in sé, ma dalla coerenza tra ciò che si è e ciò che si desidera diventare.
Nel mio lavoro incontro spesso genitori, più frequentemente madri, che portano con sé una preoccupazione silenziosa e pervasiva: il loro bambino non riesce a “lasciare andare”. A volte si tratta di neonati o piccoli che non defecano per giorni, trattenendo le feci con una determinazione che appare, agli occhi adulti, inspiegabile. Altre volte è una ragazza adolescente, ormai cresciuta, che da tempo soffre della stessa difficoltà. In ogni caso dietro il sintomo corporeo si cela un linguaggio psichico, un sintomo che chiede ascolto.
Quando il bambino “trattiene” non si tratta mai solo di un fatto fisiologico: il corpo diventa portavoce di un conflitto che attraversa il legame primario, quel primo dialogo profondo e silenzioso che si stabilisce tra madre e figlio sin dalle prime fasi della vita. Nei primi tempi è la madre a dare: offre nutrimento, contenimento, calore. Nella fase successiva, invece, quella in cui il bambino scopre di poter “produrre” qualcosa da sé, come nel momento in cui rilascia le feci, avviene uno scambio: è ora il bambino a restituire qualcosa all’Altro.
Spesso questo gesto assume per il bambino un valore simbolico potentissimo: è un dono, ma anche un’esposizione.
Donare qualcosa di sé comporta sempre un rischio: essere giudicati, non essere all’altezza, deludere. Alcuni soggetti rispondono a questo rischio chiudendosi, trattenendo ciò che dovrebbe fluire, nel tentativo di conservare un’immagine ideale di sé, di non esporsi alla possibilità del giudizio o del rifiuto.
Nella stanza di consultazione, quando una madre esprime ansia o frustrazione per questo trattenere ostinato, colgo spesso una domanda implicita: “Perché mio figlio non si fida di me abbastanza da lasciarsi andare?”. È allora che si apre uno spazio importante di riflessione sul legame madre-bambino, sulle fantasie inconsce di entrambe, sulle paure di contaminazione, di perdita, di giudizio. Spesso questo dialogo porta sollievo, perché restituisce senso a un gesto che pareva puramente biologico.
Quando anche un’adolescente continua a portare nel corpo il peso di ciò che non può lasciare andare, capiamo che quel trattenere non è mai stato solo fisico. È una forma di difesa, una modalità antica per proteggere sé stessi dal dolore del contatto, dal rischio del confronto, dalla vulnerabilità dell’essere visti davvero.
Il mio compito, come terapeuta, è accompagnare il genitore nel comprendere che ogni sintomo è un tentativo, a modo suo, di narrare un disagio. Dunque diventa fondamentale accompagnare il bambino, o l’adolescente, nel cammino verso una maggiore fiducia nel mondo interno e nell’Altro, perché solo così si può giungere, davvero, a lasciar andare.
Per approfondire:
• Sigmund Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale (1905)e Il disagio della civiltà (1930)
• Jacques Lacan, Il Seminario. Libro IV, La relazione oggettuale (1956-57) e Il Seminario. Libro X, L’angoscia (1962-63)
Nel corso del tempo, ognuno di noi finisce inevitabilmente per mostrare chi è davvero. Anche quando si tenta di controllare l’immagine che si offre agli altri, anche quando si cerca di apparire in un certo modo, in realtà sono i piccoli gesti, le reazioni spontanee, le scelte quotidiane, a rivelare aspetti profondi della nostra personalità. È attraverso questi dettagli, spesso non intenzionali, che emerge la nostra verità interiore.
Dal punto di vista psicologico, il comportamento non è mai solo una risposta superficiale agli eventi, ma è il risultato di ciò che siamo dentro: la nostra storia, le emozioni che ci abitano, i modelli relazionali che abbiamo interiorizzato, le ferite che ci portiamo dentro. Anche senza volerlo, ciò che pensiamo, ciò che desideriamo o temiamo, prende forma nelle nostre azioni, nel modo in cui ci relazioniamo agli altri: nei silenzi, nelle scelte, nei modi di parlare o di evitare.
Nel tempo, questi frammenti comportamentali costruiscono un’immagine coerente, spesso più sincera di quanto si voglia ammettere. Non è necessario un grande gesto per capire chi si ha di fronte: è nel modo in cui guarda, ascolta, reagisce alle frustrazioni o alle le difficoltà che si svela, anche senza parole, il suo mondo interno.
In questo senso, ogni comportamento è come uno specchio: non riflette solo ciò che vogliamo mostrare, ma ciò che siamo davvero. E prima o poi, anche le parti più nascoste emergono, trovano una via per esprimersi, anche nelle forme più semplici. La verità di sé non si può nascondere per sempre: vive nei dettagli, nei gesti ripetuti, nelle incoerenze, nei momenti di disattenzione. E proprio lì, nel non detto, si fa visibile.
La memoria emotiva è quella forma di ricordo che non si conserva solo nella mente, ma si radica nel corpo e nell’anima. Non riguarda tanto i fatti in sé, quanto le sensazioni, i vissuti, le atmosfere che li hanno accompagnati. È la traccia lasciata dalle esperienze emotivamente significative, soprattutto quelle vissute nella relazione con le figure di attaccamento primarie. È attraverso questa memoria che impariamo a fidarci, a riconoscere noi stessi, a costruire legami.
La memoria affettiva non è un archivio di immagini statiche, ma un tessuto vivo, che si intreccia con la nostra identità e che orienta le scelte, le relazioni, la capacità di affrontare le difficoltà. I ricordi condivisi con le figure di attaccamento diventano un rifugio psichico nei momenti di crisi, un luogo interno in cui sentirsi ancora visti, pensati, contenuti.
Essere presenti non significa riempire l’agenda di attività straordinarie, ma abitare con autenticità il tempo quotidiano. Sedersi a terra per giocare, camminare insieme nel silenzio, ascoltare davvero, ridere delle piccole cose. Questi gesti semplici ma profondamente significativi sono ciò che resta, anche quando il tempo passa.
Creare ricordi è un atto d’amore che attraversa le generazioni. È ciò che rimane quando tutto il resto cambia.
L’unica vera eredità che vale la pena costruire, giorno dopo giorno.
È notizia di questi giorni il ricovero in pronto soccorso di un adolescente in provincia di Torino, in preda a una crisi d’astinenza dopo che i genitori gli avevano tolto lo smartphone. Tremori, agitazione, sudorazione e tachicardia: sintomi che ricordano quelli legati all’interruzione improvvisa di sostanze psicoattive. Un episodio che non deve sorprendere, ma interrogare. La dipendenza da smartphone, come ogni altra forma di dipendenza, è la manifestazione di un disagio psichico profondo che si esprime attraverso il legame compulsivo con un oggetto che diviene fonte illusoria di stabilità, controllo e significato. In termini psicoanalitici, lo smartphone può essere letto come un oggetto transizionale assolutizzato, un oggetto che ha smarrito la sua funzione di mediazione per farsi sostituto del legame, surrogato del desiderio, anestetico del vuoto. Il rischio maggiore non è l’uso in sé del dispositivo, ma il suo impiego come risposta automatica all’angoscia della mancanza.
Nella logica lacaniana, l’oggetto del desiderio non è ciò che ci manca realmente, ma ciò che immaginiamo possa colmare il vuoto originario, strutturale, che ci abita. L’oggetto è “oggetto a”, resto inafferrabile del desiderio, causa del suo movimento. Quando questo viene ridotto a oggetto di consumo, come lo smartphone nelle sue infinite offerte di gratificazione immediata, viene meno la possibilità stessa del desiderare. Si passa dal desiderio alla compulsione, dalla tensione creativa della mancanza all’angoscia insostenibile del non-essere. Il soggetto, non più capace di tollerare il tempo dell’attesa o l’assenza dell’altro, si rifugia nella connessione continua, nell’iperstimolazione, nell’illusione di una presenza che anestetizza ma non nutre.
La dipendenza, in questa prospettiva, è l’incapacità di abitare la mancanza. Il ragazzo in astinenza non soffre solo perché privo di uno strumento, ma perché non ha accesso a un desiderio che possa simbolizzare quella privazione. Il lavoro terapeutico, in questi casi, non può limitarsi a disintossicare dal mezzo, ma deve restituire senso alla mancanza, riaprire uno spazio psichico in cui l’assenza non sia minaccia di annientamento, ma condizione necessaria del desiderare, dell’incontrare l’altro, del vivere.
La fine dell’anno scolastico rappresenta un momento atteso e carico di emozioni: un tempo di festa, di liberazione dalle fatiche, di condivisione tra pari. È naturale che i ragazzi sentano il bisogno di esprimere questa gioia, ma quando l’esultanza si traduce in comportamenti irrispettosi verso gli spazi pubblici, come l’abbandono di rifiuti dopo una festa, o altri atti poco rispettosi, emerge una criticità che interroga il processo di crescita e la costruzione del senso di responsabilità personale.
Alcuni adolescenti, non tutti, manifestano un atteggiamento che evidenzia una scarsa interiorizzazione del rispetto per il bene comune e per l’autorità, segnalando una fragilità nella percezione dei propri atti come parte di una più ampia coesistenza sociale.
La responsabilità, infatti, non è un tratto innato, ma si costruisce nel tempo, all’interno di relazioni educative coerenti e presenti. Se tali comportamenti non vengono riconosciuti e riformulati, possono cristallizzarsi in modalità egocentriche, deresponsabilizzanti e potenzialmente disfunzionali nel rapporto con le regole, con l’Altro e con la società. È compito della famiglia, in sinergia con altre agenzie educative, farsi carico del processo di accompagnamento alla cittadinanza attiva, promuovendo dialoghi, limiti chiari e occasioni di riflessione.
Crescere significa imparare che la libertà non può esistere senza il rispetto, e che ogni gesto ha un impatto nel mondo che si abita.
Coltivare nei ragazzi il senso civico significa aiutarli a riconoscere il valore dell’appartenenza, la dignità dei luoghi, l’importanza del contributo individuale al bene collettivo.
Nel romanzo "I giorni di vetro" Nicoletta Verna dipinge due figure femminili di intensa profondità psicologica: Redenta e Iris.
Entrambe vivono in un contesto storico segnato dalla violEnza del regime fasciSta e dalla prevaricazione maschile, un ambiente dominato dall’oppressione e dall’autoritarismo, in cui il potere maschile si manifesta in forme dure e violente.
Redenta e Iris, pur diverse per storia e scelte, condividono una sofferenza originaria che modella il loro mondo interno e i loro rapporti, rivelandoci la complessità dell’animo umano di fronte a sistemi oppressivi.
Redenta fin dall’infanzia, porta sul corpo e nella psiche la traccia di una fragilità fisica, la poliomielite, che però nasconde una corazza difensiva contro lo sguardo stigmatizzante della comunità. La sua “passività” apparente è in realtà un sofisticato meccanismo di sopravvivenza, una strategia che le permette di mantenere un’integrità psichica in un contesto fatto di esclusione, umiliazione e abuSo. Dentro di lei si assiste a una scissione: da una parte il peso schiacciante dell’identità imposta, “la scema del paese”, dall’altra una soggettività resistente, silenziosa, capace di osservare e sentire, che nonostante il dolore continua a persistere. La convivenza con Vetro, figura di potere fasciSta e uomo violEnto, esaspera questa frattura ma alimenta anche una resilienza che non si esprime in ribellione manifesta, bensì in una tenace capacità di abitare il trauma trasformandolo in uno spazio interno che può essere vissuto.
Iris, al contrario, rappresenta la forza dell’azione e della militanza. È una donna che fronteggia la violEnza storica e patriarcale con la lotta, l’impegno politico e la cura per gli altri. Anche lei porta una ferita profonda, un vuoto che cerca di colmare con un senso di appartenenza collettiva e di impegno etico. Il suo Sé si struttura nel conflitto tra il bisogno di individuazione e l’identificazione sociale, dinamica che la espone al rischio di disconnessione dalle proprie emozioni più autentiche.
Iris incarna la spinta al cambiamento, ma questa tensione comporta anche una parziale negazione del proprio dolore.
Le due protagoniste offrono così due risposte opposte ma complementari al tRauma e alla violEnza: Redenta vive nella sopravvivenza silenziosa, trasformando la ferita in memoria affettiva interna; Iris si muove nell’impegno attivo, sublimando il dolore in azione e valore etico. Il loro incontro, mediato dalla narrazione simbolica, rappresenta l’integrazione di due funzioni psichiche fondamentali: la conservazione dell’identità e la spinta verso la trasformazione.
In questo scenario, "I giorni di vetro" si presenta come un’opera che trascende il racconto storico per divenire un’indagine profonda sulle forme del dolore psichico e sulle vie molteplici attraverso cui l’essere umano può mantenersi vivo e integro.
La femminilità nel romanzo emerge come un terreno complesso, ricco di vulnerabilità e di forza, in cui la capacità di cura, la resistenza creativa e la trasformazione interiore si intrecciano.
Redenta e Iris incarnano due volti della soggettività femminile: l’una rivolta all’interno al contenimento e alla rielaborazione silenziosa; l’altra proiettata verso il mondo, all’azione e alla parola. In entrambe si manifesta una potenza trasformativa propria del femminile: la capacità di non cedere all’annientamento, di convertire la ferita in pensiero, scelta e vita. Essere donne, in questo contesto, non è solo una caratteristica narrativa, ma la chiave per comprendere come il traUma, intrecciato con la dimensione psichica e relazionale del femminile, possa essere occasione di profonda risignificazione.
Iolanda Gaeta
L’accudimento del genitore anziano è un tema complesso che intreccia dimensioni affettive, etiche e psicologiche. Se da un lato la gratitudine può rappresentare una spinta emotiva significativa, dall’altro non può essere considerata l’unico motore di tale impegno. La relazione con il genitore si struttura nel corso della vita attraverso dinamiche complesse, fatte di affetti, conflitti, aspettative e delusioni. Pertanto, ridurre l’accudimento alla sola gratitudine significherebbe trascurare le molteplici sfumature psichiche che vi si intrecciano. Innanzitutto, la gratitudine autentica nasce da un riconoscimento interiore del legame con il genitore e del valore delle cure ricevute. Tuttavia, non sempre i figli riescono a provare questo sentimento in modo spontaneo o positivo, soprattutto se il rapporto è stato segnato da dinamiche dolorose o da un senso di obbligo più che di affetto. In questi casi, l’accudimento può essere vissuto con ambivalenza, senso di dovere o addirittura risentimento, il che può condurre a una forma di cura svuotata di reale investimento affettivo. Inoltre, la funzione genitoriale, per sua natura, è asimmetrica: il genitore si prende cura del figlio senza aspettarsi necessariamente una restituzione. Quando l’anzianità inverte i ruoli, la continuità di tale accudimento non può essere data per scontata. La responsabilità nei confronti di un genitore anziano dovrebbe essere spinta anche da una consapevolezza più ampia: il riconoscimento della vulnerabilità umana, l’accettazione della dipendenza reciproca nelle diverse fasi della vita e la capacità di assumere un ruolo di cura senza che questo diventi un peso insostenibile. La qualità dell’accudimento non dipende solo dalla spinta emotiva, ma anche dalla possibilità reale di prendersi cura del genitore senza compromettere il proprio equilibrio psico-fisico. La società contemporanea, con il suo ritmo frenetico e la frammentazione delle reti familiari, rende sempre più difficile conciliare la cura dei genitori con le proprie esigenze di vita. In questo senso, è necessario superare l’idea che l’accudimento debba essere unicamente un gesto di riconoscenza individuale e promuovere un modello in cui il sostegno agli anziani sia anche una responsabilità collettiva, capace di integrare il ruolo dei familiari con un adeguato supporto sociale e istituzionale. Una cura autentica nasce dall’incontro tra il riconoscimento del legame, il senso di responsabilità e la possibilità concreta di offrire sostegno senza annullare sé stessi.
Il Disturbo di Personalità Paranoide (DPP) è caratterizzato da una diffidenza pervasiva e ingiustificata nei confronti degli altri. Chi ne soffre vive in un costante stato di allerta, convinto che le persone possano ingannarlo, sfruttarlo o danneggiarlo. Ogni gesto o parola può essere interpretato come un attacco nascosto, alimentando sospettosità e isolamento.
Queste persone faticano a fidarsi, portano rancore a lungo e reagiscono con ostilità se si sentono minacciate, anche senza prove concrete. Tendono a mantenere le distanze dagli altri, evitando il coinvolgimento emotivo per paura di essere tradite. Nelle relazioni sociali e lavorative, possono apparire fredde, rigide e costantemente sulla difensiva, rendendo difficile la collaborazione e il confronto.
In questo disturbo la persona utilizza diversi meccanismi di difesa per proteggersi da sentimenti percepiti come minacciosi.
La proiezione è centrale: impulsi negativi interni, come rabbia o ostilità, vengono attribuiti agli altri, alimentando la diffidenza. La scissione porta a una visione rigida del mondo, dividendo le persone in "buone" o "cattive". La negazione impedisce di riconoscere elementi che contraddicono le proprie convinzioni persecutorie, mentre la razionalizzazione giustifica la sfiducia con spiegazioni apparentemente logiche.
Questi processi rinforzano il senso di minaccia costante e l’isolamento emotivo.
Le origini di questo disturbo sono complesse: fattori biologici e ambientali, come esperienze infantili di rifiuto o umiliazione, possono contribuire a sviluppare una visione del mondo come ostile e pericolosa. Dal punto di vista psicodinamico, la sfiducia cronica rappresenta una difesa contro il timore di essere vulnerabili, e spesso la persona proietta sugli altri i propri sentimenti negativi, attribuendo loro intenzioni malevole.
Il trattamento è complesso, poiché anche il terapeuta può essere visto con sospetto. Tuttavia, con un percorso psicoterapeutico adeguato, la persona può riconoscere i propri schemi di pensiero disfunzionali e sviluppare un senso di sé più autentico e integrato, riducendo la rigidità del proprio mondo interno e imparando a costruire legami meno permeati dalla diffidenza.
Per approfondire
Mancini, F. (2016). Paranoia: La follia che fa la storia. Il Mulino.
Una madre narcisista tende a porre sé stessa al centro della relazione con il figlio. Lo considera un'estensione di sé piuttosto che un individuo autonomo. Il suo bisogno di ammirazione e di controllo si manifesta attraverso atteggiamenti manipolatori, richieste implicite di perfezione e una costante svalutazione delle emozioni e dei bisogni del bambino. L’amore materno in questo modo diventa condizionato: il figlio si sente accettato solo se risponde alle aspettative genitoriali, mentre eventuali manifestazioni di indipendenza possono essere vissute dalla madre come un affronto o un tradimento . L’assenza di empatia è una delle caratteristiche principali: il bambino invece di essere visto e accolto integralmente e incondizionatamente, viene ignorato, criticato o persino colpevolizzato per le sue fragilità. Il senso di Sé del figlio si sviluppa quindi in funzione del giudizio materno. Tutto questo genera insicurezza , ansia e una costante ricerca di approvazione. Spesso, la madre narcisista, oscilla tra eccessive idealizzazioni e dure svalutazioni, creando un ambiente imprevedibile che destabilizza il bambino e lo porta a dubitare di sé stesso: può mostrarsi talvolta affettuosa e premurosa, quando ciò le garantisce un ritorno d’immagine, per minimizzare o ignorare le sofferenze del figlio/a, invalidando la sua esperienza interiore, nei suoi momenti di difficoltà. Questa dinamica può generare sentimenti di colpa, vergogna e un bisogno costante di dimostrare il proprio valore; può crescere con la paura di sbagliare, esercitare un forte autocontrollo emotivo e avere difficoltà nel riconoscere e difendere i propri bisogni nelle relazioni adulte. Il bambino, dunque, viene privato di un attaccamento sicuro e di un riconoscimento autentico dei propri bisogni emotivi, di conseguenza la costruzione dell’identità ne viene compromessa: impara presto che per essere accettato deve conformarsi alle aspettative materne sacrificando i propri desideri e la propria autenticità. In età adulta può sviluppare un profondo senso di inadeguatezza, difficoltà a prendere decisioni indipendenti e una costante ricerca di approvazione. In sintesi può crescere senza sentirsi libero di esprimere ciò che sente e ciò che desidera davvero, reprimendo le emozioni come la tristezza o la rabbia per paura di essere rifiutato o giudicato. Questo può generare ansia, senso di colpa e una difficoltà a gestire situazioni emotivamente intense, inducendolo a evitare il conflitto o a mettere gli altri al primo posto. Questo modalità relazionale, in età adulta, può tradursi in difficoltà relazionali e bassa autostima.
La presenza di un padre con un disturbo narcisistico di personalità incide profondamente sullo sviluppo psicologico dei figli, determinando configurazioni differenti a seconda del genere. Ciò che condiziona in modo significativo lo sviluppo emotivo-psicologico è la tendenza del padre al controllo emotivo e il suo bisogno costante di ammirazione e protagonismo che si traduce nell’impossibilità di porre i bisogni del figlio o della figlia al primo posto, anteponendo sempre i propri.
Nel caso delle figlie il padre narcisista genera una costante ricerca di approvazione maschile e una difficoltà a percepire il proprio valore indipendentemente dallo sguardo dell’Altro. In età adulta, questa dinamica si traduce frequentemente nella tendenza a costruire relazioni con partner egocentrici e poco disponibili emotivamente, riproducendo inconsapevolmente la relazione sperimentata nell’infanzia e alimentando sentimenti di insicurezza e inadeguatezza.
Per i figli maschi la figura paterna può rappresentare un modello inaccessibile e irraggiungibile. l loro rapporto può essere segnato da richieste irraggiungibili di successo e modalità controllanti; il padre può adottare un atteggiamento rigidamente critico e svalutante, facendo sentire il figlio perennemente inadeguato e incapace di soddisfare le sue aspettative e trasmettendogli la sensazione di non essere mai abbastanza e di non riuscire a soddisfare le sue richieste.
Liberarsi dall’influenza di un padre narcisista non significa necessariamente tagliare ogni contatto, ma ridefinire il rapporto in modo da non dipendere più dal suo riconoscimento per sentirsi validi e degni di amore. È fondamentale sviluppare consapevolezza delle dinamiche disfunzionali interiorizzate. Riconoscere il proprio valore indipendentemente dall’approvazione paterna permette di ricostruire un’identità autentica, svincolata da richieste irrealistiche o svalutazioni costanti. Essenziale è anche stabilire confini chiari per proteggere il proprio spazio emotivo e interrompere schemi relazionali tossici. Un percorso psicoterapeutico può favorire l’elaborazione dei vissuti traumatici permettendo di instaurare relazioni più sane e soddisfacenti.
Per approfondire
Miller, A. (2017). Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero Sé. Bollati Boringhieri.
Calabrese, A. (2018). Narcisismo e genitorialità: Un legame complesso. Psicologia e Scuola, 42(167), 24-31.
Giacomelli, G. (2020). L'impatto del narcisismo genitoriale sullo sviluppo dei figli.
Rivista di Psichiatria, 55(2), 87-94.
Il disturbo narcisistico di personalità nasce principalmente da esperienze precoci di attaccamento disfunzionale, che influenzano la formazione del Sé e la capacità di regolazione emotiva. La psicoanalisi suggerisce che il disturbo si sviluppa quando il bambino, in un contesto familiare problematico, non riceve il riconoscimento affettivo adeguato. Ciò può accadere in due modi principali: la trascuratezza emotiva in cui il bambino non riceve attenzione, affetto o sostegno emotivo da parte dei genitori, creando un Sé fragile e insicuro che non riesce a svilupparsi in modo autentico, oppure un’idealizzazione eccessiva con genitori che trattano il bambino come una figura speciale, perfetta e invulnerabile, creando aspettative irrealistiche. In questo caso, il bambino sviluppa un’immagine grandiosa di sé, ma senza un’autentica sicurezza interiore.
Questi modelli disfunzionali di attaccamento danneggiano la capacità del bambino di costruire un Sé stabile e autentico. In risposta alla fragilità emotiva, il soggetto può sviluppare difese narcisistiche costruendo un’identità basata sulla ricerca costante di approvazione esterna e un bisogno compulsivo di essere riconosciuto ammirato, spesso mascherando un profondo vuoto interiore. In alternativa, l’esposizione a modelli familiari o sociali di perfezione può portare alla creazione di un Sé grandioso che nasconde un dolore profondo e una vulnerabilità emotiva profonda. La persona narcisista quindi costruisce una difesa grandiosa per proteggere il proprio Sé vulnerabile, ma continua a sperimentare un’insoddisfazione cronica e difficoltà nelle relazioni. Questo disturbo influisce negativamente sulla capacità del soggetto di sviluppare relazioni sane, gestire le proprie emozioni e affrontare la propria vulnerabilità.
Per approfondire
Kernberg, O. F. (2014). Narcisismo, aggressività e autodistruttività nella relazione psicoterapeutica. Raffaello Cortina Editore.
Kohut, H. (1977). Narcisismo e analisi del Sé. Bollati Boringhieri.
Il Disturbo Borderline di Personalità (DBP) è una condizione psicopatologica complessa, caratterizzata da instabilità emotiva, difficoltà relazionali e un senso fragile dell’identità. I soggetti con DBP sperimentano oscillazioni affettive intense e rapide, alternando momenti di euforia a stati di profonda disperazione, spesso scatenati da eventi interpersonali apparentemente minimi. Questa vulnerabilità emotiva si associa a un senso cronico di vuoto, alla paura dell’abbandono e a comportamenti impulsivi, che possono manifestarsi in condotte autodistruttive, atti autolesivi o tentativi suicidari. La difficoltà nella regolazione affettiva è centrale nel quadro clinico, così come la compromissione della capacità di mentalizzazione, ovvero la comprensione degli stati mentali propri e altrui e nel gestire le relazioni interpersonali. Queste persone alternano momenti di intensa rabbia, angoscia e disperazione a vissuti di idealizzazione e svalutazione dell’Altro. Hanno la tendenza a interpretare le relazioni in termini dicotomici, solo positive o negative, caratteristica delle organizzazioni di personalità meno integrate e porta a conflittualità e instabilità nelle interazioni interpersonali che sono spesso caratterizzate da un’alternanza tra idealizzazione e svalutazione, riflettendo una difficoltà nel mantenere un’immagine stabile di Sé e dell’Altro. La paura dell’abbandono e il senso cronico di vuoto spingono spesso il soggetto a comportamenti impulsivi e autodistruttivi, tra cui atti autolesivi e tentativi suicidari. Il trattamento d’elezione è la psicoterapia psicoanalitica che si focalizza sull’esplorazione delle dinamiche inconsce che sottendono l’instabilità emotiva, le difficoltà relazionali e il senso fragile dell’identità tipici del Disturbo Borderline di Personalità (DBP). Un’integrazione è possibile con gli approcci che favoriscono la regolazione emotiva e la mentalizzazione come la Terapia Basata sulla Mentalizzazione (MBT) volte a promuovere una maggiore integrazione dell’esperienza affettiva e relazionale. Se si riconosce in questa descrizione, è importante sapere che il cambiamento è possibile e che il dolore che sperimenta non deve essere affrontato in solitudine. Il DBP può compromettere il benessere e la qualità della vita, ma un percorso terapeutico adeguato può aiutarla a comprendere e trasformare le dinamiche emotive e relazionali che generano sofferenza. Attraverso la psicoterapia psicoanalitica e gli approcci che favoriscono la mentalizzazione, è possibile sviluppare una maggiore consapevolezza di sé, delle proprie emozioni e delle modalità relazionali, costruendo una stabilità interiore più solida.
Bibliografia
Bateman, A., & Fonagy, P. (2005). Il trattamento basato sulla mentalizzazione. Psicoterapia con il paziente borderline (A. Ranieri, Trad.). Raffaello Cortina Editore.
Gabbard, G. O., Madeddu, F. (a cura di.), & Galati, S. (2015). Psichiatria psicodinamica. Raffaello Cortina Editore.
L’adolescenza è una fase di transizione complessa, caratterizzata da profondi cambiamenti a livello psicologico, emotivo e relazionale. Uno degli aspetti più evidenti di questo processo è la tendenza al ritiro dalla relazione con i genitori. Questo allontanamento non è necessariamente un segnale di conflitto, ma risponde a un’esigenza evolutiva fondamentale: costruire un’identità autonoma. L’adolescente sperimenta il bisogno di differenziarsi dalle figure genitoriali, ridefinendo il proprio spazio emotivo e sociale. Il ritiro può manifestarsi con una minore comunicazione, una ricerca di privacy più marcata o un aumento del tempo trascorso con i pari e nei mondi virtuali. Se da un lato questo processo è fisiologico, dall’altro può trasformarsi in un campanello d’allarme quando assume caratteristiche di isolamento persistente. Un ritiro eccessivo, la chiusura prolungata in camera, il rifiuto di confrontarsi con adulti e coetanei o il disinteresse verso attività prima ritenute gratificanti possono indicare un disagio profondo. In questi casi, è essenziale osservare segnali come sbalzi d’umore intensi, apatia, rabbia incontrollata o pensieri autodistruttivi. Il rischio di Hikikomori, fenomeno di ritiro sociale estremo, è una delle possibili derive di questa chiusura. Gli adolescenti più vulnerabili, spesso caratterizzati da ansia, bassa autostima o difficoltà relazionali, possono rifugiarsi in una dimensione solitaria come strategia difensiva. Riconoscere precocemente questi segnali permette ai genitori e agli educatori di intervenire con sensibilità, offrendo ascolto e sostegno senza invadere lo spazio dell’adolescente, ma accompagnandolo nel ritrovare un equilibrio tra autonomia e relazione.
Per approfondire Pietropolli Charmet, G. (1999). Segnali d’allarme. Disagio durante la crescita. Mondadori.
Vrioni, I. (2017). Hikikomori: Nuova forma di isolamento sociale. Mimesis
L’individuo non è definito unicamente dalle esperienze vissute, ma piuttosto da come riesce a trasformarle in elementi fondamentali della propria identità.
Il percorso di individuazione non si limita a un semplice adattamento alla realtà esterna, ma implica la capacità di attribuire un significato personale alla propria storia, trasformando ciò che è accaduto in un motore di crescita e autodeterminazione.
Nel processo di sviluppo psichico, l’Io si forma attraverso un continuo confronto tra le proprie istanze interne e le influenze ambientali. Sebbene il soggetto sia influenzato dalle proprie esperienze, non è costretto a ripeterle in modo automatico. La psicoanalisi ci insegna che l’essere umano può riconoscere i propri schemi inconsci e scegliere consapevolmente di modificarli, accedendo così a una dimensione autenticamente trasformativa. Il passato non è un destino ineluttabile, ma un materiale grezzo da elaborare, attraverso il lavoro psichico, per costruire un senso di Sé più coerente e autonomo.
Il processo di separazione-individuazione rappresenta un passaggio cruciale per sviluppare la capacità di scelta. Solo attraverso un distacco progressivo dalle influenze esterne, dai legami simbiotici e dalle identificazioni non elaborate, il soggetto può diventare autore della propria esistenza. La possibilità di scegliere per sé richiede un lavoro di riflessione e integrazione psichica che consente di distinguere tra ciò che è stato interiorizzato passivamente e ciò che risponde autenticamente al proprio desiderio. In questo senso, l’individuazione è un processo di assunzione progressiva di responsabilità nei confronti della propria vita.
L'essere umano è il frutto di un dialogo continuo tra il passato e il futuro, tra ciò che ha ereditato e ciò che è in grado di creare. Solo quando riconosce la propria libertà di scelta può considerarsi veramente artefice della propria esistenza. La crescita psicologica non si basa sull'illusione di un'esistenza senza condizionamenti, ma sulla capacità di trasformare tali condizionamenti in opportunità di consapevolezza e autodeterminazione.
Bibliografia
Jung, C. G. (1989). Ricordi, sogni, riflessioni. Rizzoli.
Il conflitto tra genitori e figli è un tema cruciale nello sviluppo dell’individuo e nella formazione della sua identità psicologica.
Da una prospettiva psicoanalitica, questo conflitto non deve essere visto solo come un evento disturbante, ma come un passaggio necessario nel processo di separazione e individuazione.
La tensione tra il bisogno di appartenenza e il desiderio di autonomia segna profondamente il percorso di crescita, rendendo il contrasto tra generazioni un’esperienza inevitabile e trasformativa.
Fin dalla prima infanzia, il bambino stabilisce un legame primario con le figure genitoriali, che fungono da base sicura per esplorare il mondo.
Tuttavia, con il progredire dello sviluppo, emerge la necessità di differenziarsi da queste figure, di costruire un Sé autonomo e distinto.
Il conflitto diventa così l’espressione manifesta di questa tensione evolutiva: il figlio, nel tentativo di affermare la propria identità, mette in discussione le norme e i valori trasmessi dai genitori, mentre questi ultimi, spesso senza rendersene conto, possono opporre resistenza per paura di perdere il loro ruolo centrale nella vita del figlio.
In questo contesto, la rabbia gioca un ruolo fondamentale. Essa rappresenta una forza propulsiva necessaria per il distacco emotivo e simbolico dalle figure genitoriali. Se vista nella sua dimensione evolutiva, la rabbia non è solo un’emozione distruttiva, ma un elemento separatore funzionale alla crescita. Attraverso l’espressione della rabbia, il figlio sperimenta il proprio potere soggettivo e impara a gestire la frustrazione derivante dalla distanza con l’altro. È in questo spazio di tensione che si sviluppa la capacità di tollerare il conflitto, di elaborare le differenze e di acquisire una consapevolezza riflessiva sulla propria vita emotiva.
Per approfondire:
• Bowlby, J. (1989). Una base sicura: Applicazioni cliniche della teoria dell'attaccamento. Raffaello Cortina.
• Blos, P. (1985). L’adolescenza: Una interpretazione psicoanalitica. Martinelli.
Quando parliamo di responsabilità personale intendiamo la capacità di prendere decisioni consapevoli e di assumersi il peso delle proprie scelte. In ambito psicologico questo concetto è centrale nello sviluppo del Sé perché diventare soggetti attivi del proprio destino è possibile solo riconoscendo e assecondando il proprio Desiderio.
Questo insegnamento deriva dallo psicoanalista J. Lacan che ci mostra come il desiderio sia l’espressione più autentica dell’inconscio, ma per assumerlo pienamente, occorre attraversare il velo delle proiezioni che spesso porta a imputare agli altri la causa del proprio malessere.
Questa tendenza a collocare all’esterno la responsabilità per la propria condizione trova un’eco anche nel pensiero di Jung che interpreta tali meccanismi come una proiezione delle ombre interiori. Le Ombre sono gli aspetti della psiche che una persona non riconosce o non accetta di sé perché considerati inaccettabili, negativi o inconciliabili con l'immagine consapevole del proprio Sé; sono quelle parti rimosse che, sebbene ignorate, continuano a esercitare un’influenza significativa sul comportamento, sui pensieri e sulle emozioni.
La tendenza a proiettare queste ombre sugli altri o sulle circostanze esterne è un meccanismo di difesa comune che consente di evitare il confronto con le proprie fragilità, paure e/o desideri inconfessati. Tuttavia questa strategia porta a una scissione interiore, impedendo all’individuo di raggiungere una comprensione autentica di sé e di vivere la propria vita in modo pienamente consapevole.
La responsabilità, in questo senso, diventa il punto di partenza per la crescita e la realizzazione personale nella vita. L’individuo, incapace di riconoscere e integrare aspetti problematici o irrisolti della propria psiche, li proietta sull’ambiente esterno, attribuendo agli altri o alle circostanze la fonte del proprio malessere. Questo processo, pur alleviando momentaneamente il peso dell’autoconsapevolezza, impedisce al soggetto di intraprendere il lavoro necessario per l’individuazione, ossia il percorso verso la piena realizzazione del Sé.
Il lavoro con l’ombra richiede il coraggio, il coraggio di guardare dentro di sé, di riconoscere quei tratti che si preferirebbe negare e accettare ciò che essi rappresentano nella propria vita. Il rifiuto di confrontarsi con le proprie ombre alimenta la tendenza a esternalizzare la colpa.
Anche lo psicoanalista Erich Fromm, con la sua analisi della libertà e della responsabilità individuale, contribuisce in maniera significativa a questa tematica. Fromm sottolinea che molte persone fuggono dalla libertà proprio perché essa comporta il peso di dover fare delle scelte e assumersi la responsabilità delle conseguenze.
La tentazione di attribuire la colpa agli altri o alle istituzioni nasce dalla paura di confrontarsi con la propria autonomia e con il rischio intrinseco del vivere. Solo attraverso un processo di maturazione e consapevolezza si può raggiungere quella libertà autentica che è alla base della realizzazione personale. Questo processo implica accettare la complessità della condizione umana e il coraggio di affrontare l’incertezza legata alla scelta.
Ricordare il 27 gennaio è una responsabilità di ciascuno di noi perché rappresenta un’occasione importante per ricordare la liberazione del campo di concent3amento di Aus*hwitz e tutte le mo3ti che all’interno di essa sono avvenute. Non dobbiamo però limitarci a commemorare come un atto dovuto e ormai da molti sentito come abituale in quanto è necessario accedere alla conoscenza di quelle che sono le ombre più oscure della storia umana, per capire le dinamiche sociali, politiche e psicologiche che hanno permesso certi obb3obri. Come disse il filosofo George Santayana “Coloro che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo”. L’Oloc@usto non nacque dal nulla ma si radicò attraverso una serrata propaganda, ovvero un’attività intensa con il fine di conquistare il favore della popolazione; una propaganda dunque fatta di o8io e indifferenza sostenuta da condizioni sociali precarie e da un forte declino economico. Lentamente e senza clamore, vi fu una lenta e sistematica diminuzione dei diritti umani, sostenuta dal silenzio della maggioranza che forse vedeva, ma scelse di non vedere.
Questo concetto è stato approfondito in maniera esemplare dalla studiosa Hannah Arendt con la sua riflessione sulla "banalità del male" attraverso la quale spiega che le più terribili at3ocità non vengono commesse per “pura malva6ità” e con o8io acceso verso la vittima preposta, ma più semplicemente da un’obbedienza passiva e da una mancanza di responsabilità morale degli individui i quali delegano ciecamente le scelte e le decisioni al potere che in quel momento vige. Viene in ultima analisi a mancare il senso critico, la capacità di giudizio che in altre circostanze gli individui utilizzano per operare le scelte un’obbedienza totale all’autorità.
Lo psicologo Gustave Le Bon famoso per il suo libro "Psicologia delle folle", integrato poi successivamente anche dal lavoro di Sigmund Freud con il testo "Psicologia delle masse e analisi dell'Io" del 1921, ha analizzato in modo specifico i meccanismi psicologici che influenzano il comportamento delle masse, sottolineando come gli individui radunati in “masse” sviluppino una sorta di "anima collettiva" che va oltre quella degli individui che la compongono. Dello stesso parere fu Freud che affermò che appartenere a una massa premette al singolo individuo di sospendere momentaneamente la propria responsabilità e di delegarla completamente al leader che assumerebbe la funzione di “Ideale dell’Io”; inoltre la massa crea l’illusione di uguaglianza fra i membri e aumenta il senso di appartenenza che è un bisogno fondamentale di ogni essere umano.
Uno dei più autorevoli studiosi dei gruppi è stato sicuramente lo psicologo Wilfred Bion che ha analizzato e spiegato i meccanismi insiti in ogni gruppo; in particolare per quanto riguarda il concetto di delega che abbiamo sopra esposto, egli suggerisce che tra i vari assunti di base del funzionamento gruppale, l’assunto della “dipendenza “ è quello che si attiva in questo tipo di dinamiche di potere. In momenti di crisi un popolo può regredire verso una sorta di dipendenza collettiva e cercando un leader che dia l’illusione di risolvere tutti i “guai”.
Il leader, psicologicamente, può assumere la funzione di una figura paterna capace di offrire sicurezza e protezione. Questa è una forma di regressione nella quale il pensiero critico e l’autonomia di pensiero svaniscono, creando masse obbedienti che possono agire comportamenti distruttivi verso un altro popolo percepito come diverso o minaccioso.
La giornata della memo3ia dunque deve essere un monito a rimanere attenti e capaci di riconoscere queste dinamiche e segnali d’allarme: l’indifferenza verso gli altri e le loro sofferenze, posizioni ideologiche che dividono l’umanità in un “noi” verso un “loro”, la rinuncia alla responsabilità individuale in favore di una supposta necessità collettiva, affinché la storia non si ripeta.
Iolanda Gaeta
Bibiolgrafia
Hannah Arendt La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme (1963)
Gustave Le Bon "Psicologia delle folle" ( 1895)
Sigmund Freud "Psicologia delle masse e analisi dell'Io" (1921)
L'odio e l'aggressività nelle relazioni tra madre e figlio sono temi spesso trascurati, quasi considerati un vero e proprio tabù. Eppure, riconoscere e contenere queste emozioni, è fondamentale per normalizzare sentimenti che, sebbene difficili, fanno parte dell'esperienza genitoriale.
Ogni madre, in diversa misura, può provare sentimenti di irritazione, frustrazione o persino di odio verso il proprio figlio/a. Essenziale però è, per proteggere la relazione madre-figlio e favorirne lo sviluppo sano, non negare questi sentimenti, ma saperli riconoscere e gestire.
L'odio e l'aggressività nelle relazioni tra genitori e figli rappresentano una dimensione complessa ma fondamentale dello sviluppo emotivo di ogni individuo. Gli studi di Melanie Klein e Donald Winnicott offrono una prospettiva profonda su come queste emozioni, se tollerate e gestite all'interno della relazione, possano diventare strumenti di crescita psicologica per il bambino.
Melanie Klein in particolare, evidenzia come l'aggressività emerga nel bambino in una fase precoce della sua crescita emotiva- psicologica; la psicoanalista la chiama “posizione schizoparanoide”. Questa posizione è una vera e propria fase dello sviluppo e si colloca nei primi mesi di vita ed è caratterizzata da una percezione dicotomica degli oggetti, in particolare verso la madre. Il bambino tende a dividere “l'oggetto materno” in "buono" o "cattivo" in base alla soddisfazione o alla frustrazione dei suoi bisogni. Tale divisione riflette una strategia difensiva per gestire le ansie primordiali legate alla paura di distruzione o di abbandono.
Il concetto di "abbandono" nella relazione madre-figlio va oltre la semplice separazione fisica. Sebbene un atto di abbandono possa manifestarsi come l'assenza fisica della madre, la sua dimensione più profonda riguarda l'interruzione della connessione emotiva tra madre e figlio: un esempio è il cosiddetto “silenzio punitivo”. Questo tipo di abbandono implica una mancanza di accoglienza emotiva, un distacco affettivo che fa sentire il bambino non solo isolato, ma anche rifiutato. È un’esperienza che può essere vissuta dal bambino come una perdita di supporto emotivo. Quando il supporto emotivo manca o è insufficiente il bambino può sentirsi solo, incompreso o non accettato e può sviluppare difficoltà nella regolazione emotiva e nella costruzione di una solida immagine di sé e degli altri.
Nella fase schizoparanoide descritta dalla Klein, il bambino sviluppa fantasie aggressive verso
l'oggetto cattivo, ma è proprio attraverso il contenimento e l'accettazione di queste emozioni da parte del genitore che il bambino può iniziare a integrare le diverse parti di sé e dell'Altro. Dunque la capacità del genitore di tollerare tali manifestazioni senza rispondere con distacco, rabbia o addirittura vendetta, è cruciale per la crescita emotiva del bambino.
Donald Winnicott, nel suo celebre saggio sull'odio, approfondisce in modo particolare proprio il ruolo della tolleranza materna, dove sottolinea che la madre (o il caregiver che si occupa principalmente del bambino) deve essere in grado di accogliere e contenere queste emozioni senza vendicarsi o abbandonare il bambino. Questa capacità permette al figlio di sperimentare che anche le emozioni più negative non distruggono la relazione, favorendo la costruzione di una base sicura e la capacità di affrontare i conflitti.
Winnicott sottolinea anche l'importanza per la madre di riconoscere e gestire il proprio di odio, derivante dalle frustrazioni e dai sacrifici legati al ruolo genitoriale. L'odio della madre può emergere in risposta alle continue richieste del bambino, alla stanchezza e alla percezione di una perdita temporanea della propria autonomia. Riconoscere questo sentimento, senza colpa o negazione, è fondamentale per mantenere un equilibrio emotivo e offrire al bambino un ambiente sicuro. La madre “sufficientemente buona” è colei che riesce a trasformare il proprio odio in un elemento costruttivo, utilizzandolo come strumento per definire i limiti.
Questa trasformazione richiede consapevolezza e una profonda capacità di riflessione, elementi che permettono alla madre di non agire impulsivamente, ma di mantenere una relazione empatica e contenitiva. Winnicott ritiene che questa consapevolezza materna non solo protegga il bambino, ma gli offra anche un modello per gestire le proprie emozioni difficili, favorendo lo sviluppo di un senso di sé autentico. Quando, invece, l'odio e l'aggressività non vengono tollerati o riconosciuti, il rischio è di compromettere lo sviluppo del bambino. Il rifiuto o la punizione severa possono generare un senso di colpa e vergogna eccessivi, mentre una mancanza di contenimento può portare a insicurezza e confusione. Per punizione severa intendiamo un intervento disciplinare intenso e rigido tale da provocare nel bambino un profondo disagio emotivo, andando oltre la necessità educativa e oltre il limite di una correzione costruttiva.
Questo tipo di punizione non si limita a correggere un comportamento indesiderato, ma influenza fortemente il bambino generando in lui sentimenti di paura, vergogna e/o umiliazione, con potenziali effetti negativi sul suo sviluppo emotivo e psicologico.
Dunque, riconoscere sentimenti di rabbia o ostilità verso i propri figli, non definisce una madre come inadeguata, ma come una donna che sta attraversando un momento di grande difficoltà emotiva. È importante non ignorare questi stati d’animo: affrontarli con coraggio è un atto di consapevolezza. Se non si riesce a gestirli autonomamente, rivolgersi a un professionista può rappresentare un passo fondamentale per promuovere una relazione più serena e autentica con se stessa e con il proprio figlio/a.
L'odio, quindi, non è solo una forza distruttiva ma può essere trasformato in un elemento costruttivo se contenuto in una relazione basata sulla fiducia e sulla tolleranza. Questo permette al bambino di interiorizzare la fiducia nella capacità del legame affettivo di sopravvivere ai conflitti, creando le basi per una crescita emotiva equilibrata.
Iolanda Gaeta
Bibliografia
Klein, M., & Riviere, J. (1969). Amore, odio e riparazione. Astrolabio Ubaldini Editore.
Winnicott, D. W. (2000). La famiglia e lo sviluppo dell'individuo. Armando Editore.
L'adolescenza rappresenta una fase cruciale dello sviluppo umano, caratterizzata da profondi cambiamenti a livello biologico, psicologico e relazionale. Secondo Scabini (1995), uno dei principali compiti di sviluppo dell'adolescente è la costruzione di un'identità personale autonoma, che implica un processo di differenziazione dai genitori e una progressiva assunzione di responsabilità verso sé stessi e il mondo esterno. Questo percorso, tuttavia, è segnato da ambivalenze e contraddizioni che coinvolgono tanto l'individuo quanto il sistema familiare nel suo complesso.
Nel contesto del ciclo di vita della famiglia, l'adolescenza rappresenta una fase di transizione complessa. La famiglia è chiamata a ristrutturare le proprie dinamiche interne per favorire l'autonomia del giovane senza comprometterne la sicurezza affettiva. Scabini sottolinea il concetto di "protezione flessibile", un equilibrio delicato tra il sostegno necessario e la concessione di spazi di libertà. In questa fase, anche la coppia coniugale può attraversare trasformazioni significative. L'attenzione precedentemente rivolta ai figli piccoli deve essere parzialmente ridirezionata, offrendo ai partner l'opportunità di ridefinire la loro relazione e di affrontare eventuali disagi o conflitti rimasti latenti.
Un aspetto centrale è l'ambivalenza dell'adolescente nei confronti dei genitori. Da un lato, vi è il bisogno di svincolarsi per affermare la propria individualità; dall'altro, si manifesta una regressione verso modalità infantili, soprattutto nei momenti di insicurezza o paura. Tali dinamiche emotive generano sfide significative per i genitori, che si trovano a svolgere un compito di sviluppo altrettanto impegnativo: accettare la crescente indipendenza del figlio senza percepirla come un rifiuto della relazione affettiva.
Il concetto di "famiglia affettiva", elaborato da Gambini Todaro (2010), evidenzia l'importanza di un clima relazionale basato sulla fiducia, l'ascolto e la reciprocità emotiva. In una famiglia affettiva, i legami non si configurano come vincoli rigidi, ma come risorse che promuovono la crescita individuale e collettiva. Tuttavia, quando il sistema familiare non riesce a sostenere il processo di autonomia del figlio, può instaurarsi una confusione relazionale ed emotiva. In questi casi, il mantenimento di una dipendenza eccessiva dall'origine familiare può ostacolare il passaggio all'età adulta, generando insicurezze e conflitti interni.
La posizione genitoriale, in questo contesto, risulta particolarmente delicata. I genitori devono bilanciare il desiderio di proteggere il figlio con la necessità di lasciarlo sperimentare, anche a costo di affrontare errori o fallimenti. Una protezione troppo rigida può impedire al giovane di sviluppare competenze di resilienza e di adattamento, mentre un'eccessiva permissività rischia di privarlo di un ancoraggio sicuro.
L'adolescenza, dunque, è un periodo di profonde trasformazioni che coinvolge l'intero sistema familiare. Attraverso un dialogo costruttivo e una flessibilità emotiva, la famiglia può supportare il giovane nel raggiungimento dell'autonomia, contribuendo alla costruzione di un'identità solida e consapevole.
Bibliografia
GAMBINI P., Psicologia della famiglia. La prospettiva sistemico-relazionale, Milano, Franco Angeli, 2007.
GAMBINI P. – TODARO A., Percezione d’insicurezza sociale ed emancipazione dell’adolescente. Risultati di una ricerca sperimentale , in «Orientamenti Pedagogici» 57 (2010) 51-67.
SCABINI E., Psicologia sociale della famiglia. Sviluppo dei legami e trasformazioni sociali, Torino, Bollati Boringhieri, 1995.
SCABINI E. - V. CIGOLI, Il famigliare. Legami, simboli e transizioni, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2000.
Iolanda Gaeta 2020
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L'arte di “dire senza dire” rappresenta una modalità comunicativa che cela emozioni e pensieri sgradevoli attraverso l’uso di parole indirette. Questo approccio, comunemente identificato con il termine di “sarcasmo” consente di esprimere emozioni inconsce o conflitti interiori evitando di affrontare direttamente il confronto con l’Altro. Apparentemente neutro o positivo, il linguaggio sarcastico contiene in realtà una critica pungente che sottintende rabbia, frustrazione, disapprovazione o disprezzo. La sua ambiguità non solo comunica un messaggio diverso da quello dichiarato, ma funge anche da barriera protettiva contro la vulnerabilità, nascondendo desideri o conflitti profondi. Può diventare uno strumento di manipolazione psicologica attraverso il quale il soggetto non solo evita di mostrare la propria vulnerabilità, ma cerca anche di destabilizzare e confondere l’Altro senza rendere visibile la propria aggressività per mantenere il controllo sulla relazione. In ambito sociale, il sarcasmo può essere utilizzato per affermarsi in contesti di potere, evidenziando disparità relazionali o sottolineando una posizione dominante. Tuttavia, se usato abitualmente o in modo eccessivo, rischia di compromettere le relazioni interpersonali. Da un punto di vista psicologico si configura come una difesa psicologica che permette al soggetto di mascherare le proprie emozioni e mantenere una distanza emotiva dall’Altro. Secondo Freud, il sarcasmo è una forma di aggressività passiva che consente di esprimere disapprovazione. Per autori come D. Winnicott e J. Lacan, questa comunicazione indiretta rappresenta una difesa contro il senso di vulnerabilità in un tentativo di proteggersi da emozioni dolorose o da un profondo senso di insicurezza. Winnicott, in particolare, vede il sarcasmo come uno strumento per evitare un’autentica connessione emotiva. Questa modalità comunicativa, pur proteggendo il soggetto dalla vulnerabilità, ostacola l’autenticità e l’apertura, impedendo una reale espressione dei sentimenti. Così, le relazioni risultano inevitabilmente superficiali e distaccate, prive di una connessione emotiva autentica.
Il passaggio tra un anno e l’altro è un momento che, simbolicamente, ci pone di fronte al tema del cambiamento, della chiusura e della rinascita. Ogni fine rappresenta l’opportunità di un nuovo inizio, una soglia che ci invita a lasciare andare ciò che è stato e ad aprirci a ciò che sarà. Questo processo, sebbene talvolta intriso di incertezza è profondamente umano e rappresenta il cuore del nostro divenire.
Il cambiamento implica il confronto con l’ignoto, con parti di sé che ancora non si conoscono o che si teme di esplorare. Eppure, è proprio in questo attraversamento che risiede la possibilità di scoprire nuove risorse interiori e di dare un significato diverso alla propria esistenza. Ogni trasformazione, sebbene possa portare con sé una dose di smarrimento è anche un’occasione di crescita. Accogliamo dunque il nuovo anno come uno spazio aperto, un tempo ancora non scritto, ma colmo di possibilità.
Lasciamoci guidare dal desiderio, quella forza vitale che ci spinge a immaginare, creare e costruire. Abbandonare ciò che non ci appartiene più richiede coraggio, ma anche fiducia nel fatto che ogni passo verso l’ignoto può condurci a scoprire qualcosa di prezioso su di noi e sul nostro legame con il mondo.
Che questo nuovo anno sia per tutti un tempo di esplorazione e rinnovamento, dove il cambiamento diventi non solo un evento da accettare, ma una scelta consapevole verso una vita più autentica. Buon fine anno e un augurio per un 2025 che sappia stupirci con tutte le sue promesse.
L'arresto della giornalista italiana Cecilia Sala avvenuto il 19 dicembre 2024 a Teheran, rappresenta un episodio emblematico delle dinamiche di repressione e controllo esercitate dal regime iraniano nei confronti delle donne.
Sala, nota per il suo impegno nel documentare le proteste legate al movimento "Donna Vita Libertà" è attualmente detenuta nel carcere di Evin tristemente famoso per ospitare dissidenti politici.
Questo evento si inserisce in un contesto più ampio di oppressione sistematica delle donne in Iran evidenziato dalla tragica morte di Mahsa Amini deceduta mentre era sotto custodia della polizia morale per presunte violazioni del codice di abbigliamento islamico.
La repressione di voci femminili come quella di Sala, non è solo un attacco alla libertà individuale, ma riflette una volontà di silenziare qualsiasi forma di dissenso, nel tentativo di preservare il controllo su un ordine simbolico che percepisce la femminilità come una minaccia.
La femminilità, in questo contesto, non è semplicemente un’alternativa al maschile, ma si pone come un enigma per il desiderio e per il potere, un destabilizzante dell’ordine simbolico su cui si fondano molte strutture di dominio.
Lacan, nel suo lavoro sulla sessualità e sul desiderio, evidenziava l'aspetto irriducibile della femminilità e sottolineava come la donna sfugga a qualsiasi tentativo di comprensione piena e di riduzione a schemi predefiniti dettati dal mondo maschile.
Questa opacità genera nel soggetto maschile e nelle istituzioni che lo rappresentano, un bisogno di neutralizzare ciò che non può essere assimilato o ridotto a un ruolo funzionale. Tale prospettiva implica che la donna non possa essere confinata nei ruoli o nelle funzioni imposte dal sistema patriarcale, in quanto essa porta con sé una complessità e una profondità che trascendono le definizioni tradizionali.
Questa natura imprevedibile e libera della donna spesso suscita timore al punto di generare dinamiche di rifiuto e tentativi di dominio da parte dell’uomo.
La sociologa Fatima Mernissi ha messo in luce come alcune interpretazioni tradizionali della religione islamica siano utilizzate per giustificare la subordinazione delle donne, limitandone la libertà e l’autonomia. Movimenti come "Donna Vita Libertà" testimoniano una crescente resistenza femminile in cui le donne rivendicano il proprio spazio sociale e politico sfidando le narrazioni oppressive.
La femminilità, nella sua capacità trasformativa e di resistenza, continua a emergere come forza di cambiamento e libertà sfidando ogni tentativo di annientamento.
L’arresto di Cecilia Sala, dunque, non è solo un attacco alla libertà di stampa, ma incarna il timore di un regime verso la forza sovversiva di una femminilità libera e pensante.
La sua detenzione evidenzia come la repressione delle donne e delle loro alleate sia una strategia per mantenere un ordine simbolico che vede nella differenza sessuale una minaccia all'autorità costituita.
Questa vicenda illumina le tensioni profonde tra un potere che cerca di perpetuarsi attraverso la repressione e una femminilità che, nonostante tutto, continua a emergere come forza di cambiamento e libertà.
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Françoise Dolto rappresenta una figura emblematica nel panorama della psicoanalisi, in particolare per il suo contributo rivoluzionario alla comprensione del mondo infantile. La sua opera si colloca all’intersezione tra la clinica e una riflessione teorica permeata da una straordinaria sensibilità etica e simbolica. Partendo dalla convinzione che il bambino sia un soggetto capace di desiderio e di linguaggio ancor prima della nascita, Dolto ha ridefinito il rapporto tra adulti e bambini, opponendosi a una visione paternalistica o riduttiva dell’infanzia.
Nata nel 1908 in una famiglia borghese e conservatrice, Dolto affrontò fin da bambina difficoltà relazionali e un profondo senso di incomprensione, che si rifletteranno nel suo interesse per il mondo interiore dell’essere umano. La perdita della sorella maggiore e un rapporto conflittuale con la madre alimentano la sua consapevolezza della complessità delle relazioni affettive. Questo vissuto personale si trasforma in una base fertile per l'elaborazione del suo pensiero psicoanalitico, che si nutre della capacità di accogliere le differenze e di dare voce a ciò che è spesso silenziato.
Per Dolto, il bambino è innanzitutto un soggetto, un essere umano che deve essere riconosciuto nella sua integrità e dignità. Questa prospettiva trova il suo fondamento nell’idea che ogni bambino costruisca la propria identità attraverso un complesso intreccio tra lo sviluppo corporeo e l’interazione con lo sguardo e il linguaggio dell’altro. La teorizzazione dell’“immagine inconscia del corpo” costituisce uno dei suoi contributi più originali, ponendo in rilievo come il corpo non sia solo un dato biologico, ma un teatro di significati simbolici e relazionali. In questa prospettiva, l’incontro con lo specchio diventa una tappa cruciale, un momento in cui il bambino sperimenta l’“andare divenendo” della propria identità, un processo che richiede lo sguardo confermante dell’adulto.
Il metodo di Dolto si fonda su un ascolto attento e rispettoso delle espressioni verbali e preverbali del bambino. La sua pratica clinica è ricca di esempi che illustrano la sua capacità di cogliere il non detto, di leggere tra le righe delle associazioni simboliche e di rispondere con interventi che, pur nella loro semplicità apparente, producono trasformazioni profonde. Dolto era solita accogliere i suoi piccoli pazienti con un’attenzione che travalicava i confini della terapia tradizionale: la scelta di farsi pagare con giochi o oggetti è emblematica della sua concezione di una relazione terapeutica basata su uno scambio autentico.
Innovativa è anche la sua creazione de La Maison Verte, uno spazio pensato per bambini da zero a tre anni e per i loro accompagnatori, in cui si favorisce il gioco, la socializzazione e il dialogo tra adulti. Questo progetto riflette l’impegno di Dolto nel promuovere un’educazione affettiva e relazionale che coinvolga attivamente le famiglie. Il suo lavoro si intreccia con battaglie sociali importanti, come il riconoscimento del diritto dei genitori di accompagnare i figli in ospedale, e con un’attività divulgativa che mirava a rendere accessibili i contenuti psicoanalitici a un pubblico più ampio.
L’eredità di Dolto non è esente da critiche. La sua metodologia, caratterizzata da una certa fluidità e apertura, è stata talvolta considerata priva di rigore sistematico, e il suo approccio è stato accusato di generare transfert “selvaggi”. Tuttavia, queste critiche non offuscano l’originalità del suo pensiero, che resta una fonte preziosa per chiunque si interroghi sul rapporto tra infanzia, desiderio e linguaggio.
La figura di Françoise Dolto è anche profondamente intrecciata con la dimensione del femminile e con una riflessione sul desiderio che non si limita alla sfera infantile. Le sue idee sulla sessualità, sulla fecondità e sull’aborto, per quanto considerate scandalose anche da colleghi come Lacan, dimostrano il suo coraggio nell’affrontare tematiche tabù con uno sguardo aperto e innovativo.
Il pensiero di Françoise Dolto rappresenta un invito a ripensare la psicoanalisi come uno spazio di incontro e trasformazione, in cui il rispetto per l’altro, la fiducia nel linguaggio e la valorizzazione del desiderio diventano strumenti per costruire una relazione autentica e generativa. La sua eredità, sebbene spesso trascurata, continua a offrire spunti preziosi per una psicoanalisi che sappia rinnovarsi nel dialogo con le sfide contemporanee.
Letture consigliate
Ferrario, E. (a cura di). (2023). Il pensiero e l’opera di Françoise Dolto. Mimesis Edizioni.
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La scrittura: un viaggio quotidiano verso la consapevolezza e la trasformazione interiore
L’atto di scrivere quotidianamente rappresenta un’esperienza di auto-esplorazione profonda, un dialogo intimo con il proprio mondo interno. Attraverso la scrittura, il soggetto ha la possibilità di dare forma simbolica alle proprie emozioni, trasformando pensieri spesso indistinti in contenuti elaborati e significativi.
Ogni parola scritta diventa un atto creativo, uno strumento che consente di riorganizzare il proprio spazio psichico, favorendo la consapevolezza e il contenimento emotivo. La costanza di questo rituale quotidiano permette di esplorare le dinamiche inconsce, integrando vissuti frammentati e promuovendo una trasformazione interiore autentica.
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Dedicarsi alla descrizione dei propri pensieri ed emozioni rappresenta un’esperienza di esplorazione del proprio mondo interno ed è un'abitudine che consente di creare un dialogo interno che favorisce un maggiore comprensione di se stessi.
Attraverso la scrittura l’individuo può organizzare il proprio pensiero ed elaborare vissuti ed emozioni; permette di identificare schemi di pensiero ricorrenti e costituisce uno spazio sicuro in cui ci si può confrontare con se stessi. È utile dunque sia per organizzare il proprio mondo interno, ma anche per integrare esperienze passate come traumi o vissuti non risolti.
In ambito clinico la scrittura consente al soggetto di accedere alla simbolizzazione, quel processo psichico attraverso il quale emozioni e vissuti possono essere trasformati in rappresentazioni mentali esprimibili attraverso parole e immagini.
La scrittura dunque diventa uno strumento di contenimento e di crescita psicologica in cui l’individuo può trasformare le esperienze traumatiche in una narrazione coerente favorendo, in questo modo, la sua elaborazione.
In ambito clinico e terapeutico esternare è fondamentale in quanto permette di "distanziarsi" dai problemi per riuscire a osservarli come elementi esterni piuttosto che parti della propria identità.
Autori come James W. Pennebaker, psicologo sociale e pioniere della scrittura espressiva, hanno evidenziato come la scrittura possa migliorare il benessere emotivo e incrementare la resilienza.
Iolanda Gaeta
Pennebaker, J. W., & Smyth, J. M. (2017). Il potere della scrittura. Come mettere nero su bianco le proprie emozioni per migliorare l'equilibrio psico-fisico. Milano: Tecniche Nuove.
Le adolescenti di oggi sono immerse in un universo digitale fatto di immagini scintillanti e narrazioni curate, proposte dalle influencer. Queste figure, apparentemente legate al lifestyle, incarnano modelli di identificazione che, osservati attraverso la lente della psicoanalisi rivelano dinamiche più profonde. Lacan insegna che il soggetto si forma a partire dall’identificazione con un’immagine ideale nello stadio dello specchio. Le influencer, con i loro corpi perfetti e vite costruite ad hoc, diventano specchi irresistibili per le adolescenti in cerca di un Sé ideale. Tuttavia, il desiderio umano, per sua natura, è mancante: le immagini delle influencer nascondono una promessa di completezza che non può essere mantenuta. In questo scenario, l’Altro simbolico, portatore di limiti e leggi, è sostituito dall’Altro algoritmico. Le piattaforme digitali come Instagram e TikTok, governate da algoritmi, non impongono norme, ma dirigono il desiderio attraverso un flusso incessante di contenuti. Gli algoritmi non propongono limiti, bensì amplificano la fascinazione per un godimento illimitato. Le influencer, invece, operano come un Super-Io estetico che impone di essere perfette, visibili, desiderabili. Questo imperativo non è liberatorio, ma coercitivo, poiché legato all’objet petit a, l’oggetto del desiderio che resta irraggiungibile.
Il rischio è che, identificandosi con queste immagini, le adolescenti si alienino dal proprio desiderio autentico, perdendo il contatto con se stesse. La sfida educativa e psicoanalitica è aiutare le giovani a interrogare i modelli proposti, decostruire il potere simbolico delle influencer e creare nuovi significati. La fascinazione esercitata da queste figure rivela la crisi del nostro tempo: un’epoca in cui l’Altro simbolico vacilla, lasciando il soggetto solo di fronte alla propria mancanza, tra specchi virtuali e desideri riflessi.
Iolanda Gaeta
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Affinché possa esserci pensiero è necessario che l’individuo faccia esperienza di un’assenza, di una mancanza che scuota il suo essere e lo ponga di fronte a un vuoto da colmare.
Il pensiero in questa prospettiva non è un dato naturale o immediato, bensì il frutto di un processo elaborativo che prende forma attraverso il confronto con ciò che manca.
Se pensiamo al bambino è nella frustrazione che avverte l’assenza, l’assenza del seno materno direbbe Bion, e questo si configura come l’opportunità di sviluppare il pensiero.
Se la madre è capace di “contenere” l’angoscia del neonato restituendogliela in forma trasformata e simbolizzabile allora quella frustrazione non si cristallizza in un trauma, ma si tramuta in spinta creativa.
Il concetto di “manca” (“manque”) di Lacan ci spiega in modo ancora più puntuale questo aspetto tanto che lo descrive come il fulcro del desiderio umano.
L’uomo, secondo Lacan, è strutturalmente segnato da un vuoto originario, da una perdita irrimediabile dell’“oggetto a”, l’oggetto del desiderio che non potrà mai essere pienamente posseduto. Perché non potrà essere mai posseduto?
Perché è una sorta di "cosa mancante" che non possiamo mai ottenere del tutto, ma che continuiamo a desiderare. È ciò che ci spinge a cercare, ad agire, a desiderare, senza mai sentirci completamente soddisfatti. Non è un oggetto reale o concreto, ma un simbolo di ciò che ci manca per sentirci completi.
Immaginiamo di pensare che una determinata cosa, come un lavoro, un amore, o un obiettivo, possa finalmente renderci felice; quando la si ottiene però, ci si accorge che non è esattamente come pensavamo e che manca sempre qualcosa. Quella mancanza che resta è l'oggetto piccolo a. È come un motore interno che ci fa andare avanti, cercando sempre un senso o una completezza che però rimangono irraggiungibili.
L’assenza dunque non è un vuoto sterile, ma fecondo, capace di attivare processi di simbolizzazione e produzione di pensiero.
Qual è dunque la funzione della frustrazione e della rabbia scatenata dalla mancanza?
In questo contesto, la rabbia e la frustrazione possono giocare un ruolo trasformativo se adeguatamente elaborate. Donald Winnicott, ad esempio, evidenzia come il gioco creativo e l’uso dell’oggetto transizionale permettano al bambino di trasformare la rabbia per l’assenza o per la frustrazione in un processo simbolico e affermativo. La capacità di tollerare l’assenza, di restare in contatto con il vuoto senza fuggirlo, diventa allora la condizione per l’emergere di un pensiero vitale e creativo. Questo pensiero è al tempo stesso, un modo per accettare il limite e una modalità per superarlo, investendo energia in nuovi legami e significati.
La rabbia “ben investita” come suggerito, non è né negata né repressa, ma trasformata in carburante per il pensiero. Essa è la traccia di una ferita che, anziché richiudersi su se stessa, si apre alla possibilità di una rielaborazione. In questo senso, il pensiero nasce dall’assenza come un’esperienza affermativa: è il segno di una vita psichica che non si accontenta del dato, ma cerca di oltrepassarlo, di trasformare il negativo in uno spazio di costruzione. L’assenza, lungi dall’essere una condanna, si rivela la condizione stessa per l’affermazione di una soggettività pienamente umana.
Iolanda Gaeta
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La violenza sulle donne rappresenta un fenomeno complesso, radicato nella storia e nella
psiche collettiva che si esprime in molteplici forme, dal controllo psicologico alla manipolazione
emotiva, fino agli atti fisici più estremi.
Analizzarlo attraverso l'ottica psicoanalitica permette di svelare dinamiche profonde legate alla
struttura psichica individuale, ai legami di attaccamento e ai modelli familiari trasmessi attraverso
le generazioni. In questo contesto emergono il ruolo dei manipolatori e dei narcisisti nel perpetuare
la violenza, l'importanza della dipendenza affettiva, l'influenza degli attaccamenti disorganizzati e il
peso della trasmissione transgenerazionale dell'abuso.
I manipolatori e i narcisisti patologici utilizzano il controllo emotivo e la coercizione per
esercitare potere sulle proprie partner. Questi individui tendono a sviluppare una personalità
caratterizzata da una profonda insicurezza e da un senso del sé fragile, mascherati da un'apparente
superiorità e grandiosità.
La violenza esercitata da queste figure non è solo fisica ma anche psicologica, spesso inscritta
in una dinamica di manipolazione sottile che si manifesta attraverso il gaslighting, la svalutazione
sistematica e l'isolamento sociale della vittima.
In ottica psicoanalitica, il comportamento del manipolatore può essere interpretato come un
tentativo di compensare un sé frammentato, nato da esperienze infantili di abbandono o
svalutazione. Spesso, questi individui riproducono modelli appresi in un contesto familiare
disfunzionale, dove l'amore e l'abuso erano intrecciati. La violenza diventa così una modalità per
ristabilire il controllo e alleviare l'angoscia derivante da un profondo senso di inadeguatezza.
Le vittime di violenza, soprattutto quando coinvolte in relazioni con questi soggetti, possono
sviluppare una forma di dipendenza affettiva, una condizione caratterizzata da un bisogno
compulsivo di approvazione e affetto. Questa dipendenza si radica spesso in una bassa autostima e
in una fragilità emotiva che rendono la vittima incapace di rompere il legame con l'aggressore nonostante il dolore subito.
Secondo la teoria psicoanalitica, questa dinamica può derivare da un'incapacità di costruire un
senso di sé autonomo e stabile durante l'infanzia. La figura di attaccamento primaria, spesso
inadeguata o ambivalente, può aver trasmesso l'idea che l'amore è condizionato o che il dolore è una
componente inevitabile della relazione. Di conseguenza, la vittima può percepire il legame con il
manipolatore come indispensabile, accettando la violenza come un prezzo da pagare per mantenere
una connessione affettiva.
Le teorie dell'attaccamento evidenziano come le esperienze precoci con i caregiver modellino
il modo in cui gli individui si relazionano agli altri. I legami di attaccamento disorganizzati,
caratterizzati da una miscela di paura e bisogno di vicinanza, sono spesso alla base delle relazioni
disfunzionali. Bambini cresciuti in contesti dove il caregiver è al contempo fonte di conforto e di minaccia sviluppano un senso di confusione e di ambivalenza che può ripetersi nelle relazioni
adulte.
Nelle dinamiche di violenza di coppia, la vittima può oscillare tra la paura dell'abbandono e il
terrore della violenza, perpetuando un ciclo di avvicinamento e allontanamento che rafforza il
legame con l'aggressore. L’incapacità di riconoscere e reagire a segnali di pericolo è spesso il
risultato di questa confusione interna che risale a esperienze infantili di attaccamento disturbato.
Un altro aspetto cruciale nella comprensione della violenza sulle donne è la trasmissione
transgenerazionale dei modelli di abuso. Famiglie segnate da maltrattamenti o relazioni
disfunzionali tendono a perpetuare queste dinamiche, passando inconsciamente ai figli schemi
relazionali distruttivi. Questo fenomeno può essere spiegato attraverso il concetto di
"identificazione con l'aggressore" dove il bambino per sopravvivere emotivamente, interiorizza i
comportamenti abusivi come normali.
A livello inconscio, le vittime possono essere attratte da partner che replicano le dinamiche
familiari nella speranza di risolvere conflitti irrisolti dell'infanzia. D'altro canto, gli aggressori
spesso cresciuti in contesti di abuso, perpetuano gli stessi modelli, incapaci di elaborare e spezzare
il ciclo.
In conclusione la violenza sulle donne è un fenomeno complesso che non può essere compreso
senza un'analisi profonda delle radici psicologiche, relazionali e culturali che lo alimentano.
Manipolazione, narcisismo, dipendenza affettiva e attaccamento disorganizzato sono tutti tasselli di
un quadro intricato, ulteriormente complicato dalla trasmissione transgenerazionale dell'abuso.
Spezzare questo ciclo richiede non solo interventi terapeutici individuali, ma anche un cambiamento
culturale che promuova relazioni basate sul rispetto e sull'uguaglianza. Solo affrontando le radici
profonde della violenza possiamo sperare di costruire una società più giusta e sicura per tutte le
persone.
Iolanda Gaeta
Psicologa, Psicoterapeuta Psicoanalitica
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La separazione e il divorzio rappresentano eventi significativi nella vita di un individuo e di una coppia, segnando la conclusione formale e affettiva di un legame coniugale.
Tali processi pur essendo spesso accompagnati da un vissuto di sofferenza, frustrazione e perdita, costituiscono al contempo un passaggio evolutivo che può condurre alla costruzione di un nuovo equilibrio, sia a livello intrapsichico sia nelle relazioni interpersonali.
La separazione: il distacco iniziale
La separazione, intesa come il primo passo verso l’interruzione della vita coniugale, rappresenta un momento di rottura nel sistema familiare e relazionale. Essa si manifesta spesso come una fase caratterizzata da conflitti intensi, ambivalenze emotive e una profonda revisione del proprio progetto di vita. La decisione di separarsi non è mai priva di implicazioni psicologiche: implica il riconoscimento di un fallimento percepito, la perdita di un ideale condiviso e il confronto con una serie di paure legate alla solitudine, alla vulnerabilità economica e alla riorganizzazione delle relazioni con i figli, laddove presenti.
Dal punto di vista psicoanalitico, la separazione può essere letta come un processo di lutto, in cui il soggetto è chiamato a elaborare la perdita dell’altro quale oggetto investito di amore e aspettative. Tale elaborazione è spesso ostacolata da meccanismi di difesa, come la negazione, la colpevolizzazione dell’altro o la ruminazione rabbiosa, che impediscono un’integrazione consapevole del vissuto emotivo.
Il divorzio: la conclusione formale del legame
Il divorzio rappresenta la formalizzazione giuridica della fine del matrimonio, sancendo in modo definitivo la dissoluzione del vincolo coniugale. Esso non è solamente un atto legale, ma costituisce un passaggio psicologico cruciale, in cui i partner sono chiamati a ridefinire la propria identità individuale e il proprio ruolo sociale al di fuori della relazione coniugale.
Durante questa fase, emergono frequentemente vissuti di rabbia, tristezza e senso di colpa, legati sia al proprio ruolo nella crisi matrimoniale sia alle conseguenze per i figli e le famiglie d’origine. L’interruzione del legame può risvegliare conflitti latenti, come il senso di abbandono o di inadeguatezza, che trovano origine in esperienze relazionali precoci. Pertanto, il divorzio non è solo un evento conclusivo, ma anche un momento potenzialmente trasformativo, in cui l’individuo può rimettere in discussione schemi affettivi e relazionali consolidati.
L’impatto della separazione e del divorzio sui figli
Quando la coppia coniugale è anche una coppia genitoriale, la separazione e il divorzio assumono un ulteriore livello di complessità. I figli, infatti, si trovano coinvolti in una riorganizzazione familiare che può generare disorientamento, ansia e vissuti di perdita. Dal punto di vista psicodinamico, è fondamentale che i genitori mantengano una funzione contenitiva, capace di proteggere i figli dalle dinamiche conflittuali e di preservare la stabilità dei legami affettivi.
Il rischio principale, in questi casi, è rappresentato dalla triangolazione, in cui i figli vengono coinvolti, anche inconsapevolmente, nei conflitti tra i genitori. Questo può avere effetti negativi sul loro sviluppo psicoaffettivo, generando sentimenti di lealtà divisa, senso di colpa o difficoltà a costruire relazioni future. Un lavoro psicoterapeutico con la coppia genitoriale può essere di grande aiuto nel favorire una separazione “funzionale” in cui il benessere dei figli rimanga una priorità condivisa.
La ricerca di un nuovo equilibrio
Superata la fase acuta della separazione e del divorzio, l’individuo è chiamato a intraprendere un percorso di ricostruzione identitaria ed esistenziale. Questo implica l’elaborazione del lutto per la perdita del legame coniugale e la riorganizzazione delle proprie risorse interne ed esterne per affrontare una nuova fase di vita.
La ricerca di un nuovo equilibrio può richiedere un tempo variabile, influenzato da fattori come il supporto sociale, la capacità di elaborazione emotiva e la presenza di risorse personali. In alcuni casi, il sostegno psicoterapeutico può risultare cruciale per aiutare l’individuo a comprendere i significati profondi attribuiti alla relazione terminata, a riconoscere i propri bisogni e desideri e a costruire una nuova narrazione di sé.
Dal punto di vista intrapsichico, il processo di riorganizzazione comporta un’integrazione dei vissuti di perdita e un riposizionamento rispetto all’altro che non è più oggetto di investimento affettivo primario. Ciò non implica necessariamente una rottura totale con l’ex-partner, ma piuttosto una ridefinizione del legame in termini meno conflittuali e più funzionali soprattutto nel caso in cui vi siano figli da crescere insieme.
La prospettiva evolutiva
Pur essendo spesso vissuti come momenti di crisi, la separazione e il divorzio possono rappresentare opportunità di crescita personale e relazionale. L’interruzione di un legame che non risponde più ai bisogni dei partner può aprire spazi per l’autenticità, la scoperta di sé e la costruzione di relazioni future più soddisfacenti.
Tali eventi possono essere letti come tappe di un processo di individuazione in cui l’individuo è chiamato a confrontarsi con le proprie ferite emotive, i propri desideri e le proprie responsabilità. Questo percorso, se adeguatamente sostenuto, può condurre a una maggiore integrazione psichica e a una rinnovata capacità di amare e di essere amati.
In conclusione la separazione e il divorzio rappresentano sfide complesse che coinvolgono aspetti emotivi, relazionali e sociali. Tuttavia, affrontati con consapevolezza e supporto adeguato, essi possono trasformarsi in occasioni di crescita e di rinnovamento. La capacità di elaborare il lutto per la perdita del legame coniugale, di preservare una comunicazione rispettosa con l’ex-partner e di ricostruire un equilibrio interiore costituisce la base per affrontare il futuro con maggiore serenità e apertura verso nuove possibilità relazionali.
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Il Natale può assumere un significato che trascende la dimensione religiosa e sociale per connettersi ai livelli più profondi della vita psichica e del vissuto interiore. Questo momento dell’anno richiama simbolicamente temi centrali della vita interiore: la nascita, la rinascita e il legame con le figure primarie; può riattivare in modo inconscio dinamiche relazionali profonde legate alla famiglia e alle relazioni più significative.
Il ritrovo con i propri cari può risvegliare emozioni ambivalenti: nostalgia, desiderio di appartenenza, ma anche conflitti irrisolti e tensioni. Queste esperienze ci riportano alla complessità dei legami affettivi che sono contemporaneamente fonte di conforto e luogo di elaborazione del passato. Simboleggia dunque un ritorno alle origini emotive evocando il legame primordiale con le figure di accudimento e il desiderio inconscio di appartenenza, protezione e calore.
È un tempo che invita a riflettere su ciò che ci nutre internamente e che favorisce il contatto con le dimensioni profonde della nostra identità.
In questa prospettiva, il Natale non è solo un momento di celebrazione, ma un'occasione per il contatto con le proprie radici psichiche e per il lavoro interiore di trasformazione e crescita.
Questa riconnessione non è solo un atto nostalgico, ma un processo attivo e trasformativo: significa riportare alla luce ciò che, nel corso della vita, è stato rimosso o relegato nell'inconscio, per integrarlo in una nuova consapevolezza.
Il lavoro interiore che il Natale può stimolare è simile a un viaggio simbolico verso il nucleo della propria identità, dove risiedono le esperienze più autentiche e i significati essenziali. È un’occasione per osservare le dinamiche affettive con uno sguardo più maturo, accettando sia le ombre che le luci, sia le fragilità che le risorse. La crescita personale, infatti, non avviene solo nel superamento delle difficoltà, ma anche nella capacità di abbracciare le complessità che ci definiscono, tra desideri, timori e bisogni.
In questo senso il Natale diventa un tempo in cui passato e presente si incontrano offrendo l’opportunità di trasformare vecchi schemi e di immaginare nuove possibilità. È un momento per chiedersi chi siamo e chi vogliamo essere, non solo in relazione agli altri, ma anche rispetto al nostro mondo interno.
Questa trasformazione non è immediata né lineare, ma si configura come un atto creativo che porta a una maggiore integrazione, autenticità e apertura verso il futuro.
"I pensieri sono invenzioni, atti creativi. Il filosofo creerebbe il nuovo, inventando quello che “prima” non c’era".
Gilles Delueze (1972)
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Nel panorama della psicologia contemporanea, il concetto di autoefficacia rivela un'influenza significativa nel modellare il nostro approccio alle sfide quotidiane. Attraverso il lavoro di Bandura e Caprara, siamo invitati a riflettere sul valore della fiducia nelle nostre capacità nel determinare il nostro successo e benessere. Questo articolo esplora la profonda connessione tra l'autoefficacia e la nostra capacità di affrontare le sfide quotidiane con sicurezza e determinazione.
Il lavoro di Albert Bandura, rinomato psicologo canadese-americano, ha influenzato profondamente la comprensione del comportamento umano e dello sviluppo personale; egli è noto per la sua teoria dell'apprendimento sociale e per il suo lavoro pionieristico sull'autoregolazione e sull'autopercezione oltre quello sul senso di "autoefficacia" un concetto ricco di implicazioni per la comprensione del Sé e del modo in cui le persone affrontano sfide e opportunità nella vita.
Secondo Bandura, l'autoefficacia si riferisce alla convinzione nelle proprie capacità di organizzare e attuare azioni necessarie per raggiungere obiettivi specifici in situazioni particolari. Il concetto di autoefficacia è strettamente legato al senso di competenza personale. Quando una persona ha un alto senso di autoefficacia in una determinata area, si sentirà più sicura delle proprie capacità e sarà più incline a intraprendere azioni per affrontare le sfide che si presentano.
Al contrario, un basso senso di autoefficacia può portare a sentimenti di impotenza e evitamento delle sfide.
In altre parole, si tratta della fiducia nel poter affrontare con successo le sfide che si incontrano nella vita.
Un altro importante contributo al costrutto dell'autoefficacia è stato elaborato da Gian Vittorio Caprara, psicologo italiano noto per i suoi studi sulla personalità e sullo sviluppo individuale.
Caprara ha sviluppato modelli e strumenti per valutare l'autoefficacia in diverse aree della vita, tra cui il lavoro, la salute, le relazioni interpersonali e altro ancora. La sua ricerca ha evidenziato l'importanza di comprendere l'autoefficacia come un costrutto multidimensionale, influenzato da fattori situazionali, esperienze passate e percezioni personali.
In conclusione, il lavoro di Bandura e di studiosi come Caprara fornisce preziose intuizioni sul ruolo dell'autoefficacia nel determinare il comportamento e il benessere umano.
Comprendere e coltivare un senso di autoefficacia può avere profonde implicazioni per la capacità di affrontare sfide e perseguire obiettivi nella vita quotidiana e scolastica/professionale.
L'adolescenza rappresenta una fase di profonde trasformazioni e complessità emotiva per i giovani e le loro famiglie. Esplorando i compiti di sviluppo attraverso le lenti della psicoanalisi, possiamo acquisire una comprensione più profonda di questo periodo cruciale per la vita di un individuo.
Secondo Erik Erikson, uno dei principali teorici dello sviluppo, l'adolescenza è caratterizzata dal conflitto tra identità e confusione di ruoli. I giovani si trovano immersi in un processo di esplorazione e definizione del sé in cui si domandano: "Chi sono io?". In questo contesto, i genitori possono svolgere un ruolo essenziale nel fornire un ambiente sicuro e accogliente in cui i loro figli possano sperimentare e sviluppare la propria identità in modo autentico.
Parallelamente, la teoria dell'attaccamento di John Bowlby evidenzia l'importanza del legame affettivo tra genitori e figli durante l'adolescenza. Mentre i giovani cercano autonomia e indipendenza, hanno ancora bisogno di sentirsi sicuri e supportati dai loro caregiver. I genitori possono sostenere questo equilibrio delicato offrendo un sostegno empatico e incoraggiando gradualmente l'autonomia dei loro figli.
Inoltre, la prospettiva psicoanalitica di Sigmund Freud mette in luce l'influenza dei desideri inconsci sul comportamento adolescenziale. Durante questo periodo, i giovani possono essere tormentati da conflitti interiori tra istinti primordiali e aspettative sociali. È importante che i genitori siano consapevoli di questi conflitti e forniscano un ambiente in cui i loro figli possano esplorare e comprendere i loro impulsi in modo costruttivo.
Infine, i "compiti di sviluppo" proposti da Robert Havighurst sottolineano le sfide e le opportunità che l'adolescenza porta con sé. Questi compiti includono la formazione di un'identità personale, lo sviluppo di relazioni interpersonali significative e l'acquisizione di competenze sociali e culturali. I genitori possono svolgere un ruolo importante nel facilitare questi compiti fornendo modelli positivi, supporto emotivo e opportunità di crescita.
Comprendere l'importanza del metodo di studio è cruciale per favorire il successo scolastico e il benessere emotivo.
Il metodo di studio non è semplicemente una serie di tecniche da apprendere, ma piuttosto un approccio sistematico e personalizzato all'apprendimento.
Un efficace metodo di studio non solo aiuta i bambini e i ragazzi a organizzare le informazioni in modo coerente, ma promuove anche abilità di pensiero critico e di apprendimento autoregolato.
Attraverso strategie come la creazione di mappe concettuali, la ripetizione e l'uso di strategie mnemoniche, i bambini e i ragazzi imparano a elaborare e memorizzare le informazioni in modo più efficace.
Inoltre, un buon metodo di studio può ridurre lo stress legato agli impegni scolastici e promuove una maggiore fiducia nelle proprie capacità di apprendimento.
Gli allievi che sviluppano un metodo di studio efficace tendono ad essere più autonomi e motivati nel loro percorso di apprendimento poiché si sentono più sicuri nel gestire le sfide che incontrano lungo il cammino.
Fondamentale è l'esplorazione di diverse tecniche di studio perché ciò permette di adattarsi alle proprie esigenze individuali.
È fondamentale offrire un ambiente di apprendimento tranquillo e stimolante mostrando interesse attivo per il progresso scolastico dei propri figli.
Di importanza cruciale è essere pazienti e comprensivi durante i periodi di difficoltà, incoraggiandoli a perseverare e soprattutto a chiedere aiuto quando necessario.
La mentalizzazione, definita come la capacità di comprendere e interpretare i propri e gli altrui stati mentali, è emersa come un costrutto cruciale nel campo della psicologia clinica e delle terapie psicologiche. Peter Fonagy e Anthony Bateman hanno sviluppato un modello terapeutico basato sulla mentalizzazione (MBT), che ha guadagnato sempre più attenzione e validazione empirica nel trattamento di una vasta gamma di disturbi psicologici.
In questo articolo è descritto il ruolo fondamentale della mentalizzazione nelle terapie psicologiche, concentrandoci sui contributi di Fonagy e Bateman, nonché sulle applicazioni pratiche della MBT nei contesti clinici.
Fonagy e la Teoria dell'Attaccamento
Peter Fonagy, insieme a collaboratori come Mary Target, ha approfondito la comprensione della mentalizzazione attraverso una prospettiva dell'attaccamento.
Fonagy ha evidenziato il legame tra la capacità di mentalizzazione e lo sviluppo dell'attaccamento sicuro, sottolineando come la capacità di riflettere sui propri stati mentali e su quelli degli altri sia cruciale per la costruzione di relazioni interpersonali sane e soddisfacenti. Fonagy ha anche sottolineato l'importanza della mentalizzazione nel contesto della regolazione emotiva e della risoluzione dei conflitti interpersonali.
La Terapia Basata sulla Mentalizzazione (MBT)
La Terapia Basata sulla Mentalizzazione (MBT) è un approccio terapeutico che si basa sullo sviluppo e il potenziamento della capacità di mentalizzazione del paziente. Fonagy e Bateman hanno sviluppato la MBT principalmente per il trattamento dei disturbi della personalità, ma il suo utilizzo si è esteso a una varietà di condizioni psicologiche, inclusi disturbi dell'umore, disturbi alimentari e traumi psicologici. La MBT si concentra sull'aiutare i pazienti a comprendere meglio i propri processi mentali, a riconoscere e regolare le proprie emozioni e a sviluppare una maggiore consapevolezza delle dinamiche relazionali.
Applicazioni Cliniche della MBT
Le applicazioni cliniche della MBT sono state ampiamente studiate e documentate. Studi empirici hanno dimostrato l'efficacia della MBT nel ridurre i sintomi di disturbi psicologici, migliorare la qualità delle relazioni interpersonali e promuovere il benessere psicologico generale. La MBT si è dimostrata particolarmente efficace nel trattamento dei disturbi della personalità borderline, dove il deficit di mentalizzazione è una caratteristica centrale.
La Terapia Basata sulla Mentalizzazione dunque offre un approccio terapeutico innovativo e empiricamente supportato per una vasta gamma di disturbi psicologici, con un'enfasi particolare sullo sviluppo della capacità di mentalizzazione del paziente.
L'incorporazione dei principi della mentalizzazione nelle pratiche terapeutiche può portare a risultati positivi e duraturi nel trattamento delle condizioni psicologiche, promuovendo una maggiore consapevolezza emotiva e relazionale e migliorando complessivamente il benessere psicologico dei pazienti.
Il termine "trauma", derivato dal greco che significa "ferita" o "rottura", è stato definito da Sigmund Freud (1856-1939) come situazioni in cui l'impatto violento di un evento esterno è così intenso da attraversare la "barriera protettiva" che normalmente respinge gli stimoli dannosi (1926).
Nella concezione di Freud, il trauma non è principalmente una questione di relazioni, ma piuttosto riguarda il conflitto psichico: i sintomi nevrotici degli adulti possono derivare non necessariamente da traumi effettivamente vissuti durante l'infanzia, ma spesso sono espressioni di fantasie di violenza o seduzione "create" dal bambino stesso. Queste fantasie, come quelle edipiche, incestuose e aggressive, possono sovrapporsi o integrarsi con gli eventi reali. Il concetto di "trauma fantastico" si collega alle teorie sulla sessualità infantile, ma può anche influenzare la comprensione clinica dei sintomi e dei ricordi. Inevitabilmente, il tema del trauma solleva la questione del ricordo e del ruolo della memoria nell'elaborazione del trauma, nella formazione delle difese e nell'integrazione delle esperienze umane.
In passato, molti terapeuti hanno messo in discussione la veridicità e la rilevanza delle storie dei pazienti riguardanti il trauma infantile, talvolta considerando inaffidabili o addirittura mendaci i resoconti di esperienze traumatiche. Tuttavia, ignorare la realtà dell'esperienza "rischia di ritraumatizzare il paziente".
Grazie ad autori come Ferenczi, Balint e Winnicott, tra i più influenti successivi a Freud, si è cominciato a porre maggiore attenzione al ruolo della realtà esterna e dei contesti relazionali precoci nella formazione di molte gravi patologie della personalità. In particolare, si è attribuito un valore traumatico non solo agli abusi, ma anche alle prime forme di perdita e alla psicopatologia dei caregiver, evidenziando i loro fallimenti nel soddisfare i bisogni fondamentali dei figli.
Questo spostamento di prospettiva, dal singolo evento al contesto relazionale, è stato fondamentale e ha trovato espressione nel concetto di "inattendibilità" di Winnicott, considerati il punto di partenza per molti psicoanalisti contemporanei.
Questo cambiamento di paradigma è stato ulteriormente supportato dalla teoria dell'attaccamento di John Bowlby, che ha evidenziato l'importanza della relazione tra il bambino e il caregiver.
Importanti contributi sono stati forniti anche da Anna Freud (1895 -1982) e Dorothy Burlingham (1891- 1979) sulle esperienze dei bambini sfollati durante la Seconda Guerra Mondiale, e da René Spitz ( 1887-1974) sui bambini precocemente ospedalizzati e privati della relazione privilegiata con i loro caregiver.
Bowlby ha studiato le esperienze di separazione e perdita e le loro conseguenze sul funzionamento della personalità, evidenziando come queste esperienze predispongano a processi psicopatologici che possono manifestarsi più avanti nella vita.
Gli anni '70 hanno visto una nuova dialettica tra clinica e ricerca, con studi approfonditi sui modelli relazionali, l'attaccamento e lo sviluppo emotivo, che hanno portato a sviluppi significativi nella psicologia e nella psicopatologia evolutiva. In particolare, gli studi di autori come Daniel Stern ( 1985 -1998) e il Boston Change Process Study Group (2010) hanno ampliato la comprensione dei fattori traumatici che influenzano lo sviluppo psichico e la psicopatologia.
Gli studi di Karlen Lyons-Ruthe e di Giovanni Liotti hanno contribuito significativamente alla comprensione del trauma, della dissociazione e dell'attaccamento disorganizzato.
Nel campo della clinica psicoanalitica, Philip Bromberg è stato uno degli autori più attivi nello studio degli effetti del trauma e dei suoi trattamenti. Il rapporto tra trauma e dissociazione, intesa come forma estrema di difesa dalla traumatizzazione, rappresenta un importante punto di incontro tra psicoanalisi e neuroscienze.
La dissociazione, sul piano neurobiologico, riflette l'incapacità del sistema corticale-sottocorticale destro del sé implicito di riconoscere ed elaborare gli stimoli esterni, portando a un collasso della soggettività e dell'intersoggettività. Gli affetti stressanti, in particolare quelli associati al dolore emotivo, non vengono esperiti consapevolmente, ma si trasformano in stati "non-me" (Bromberg 2011; Mucci, 2014).
Bibliografia
BROMBERG, P. (1996), Clinica del trauma e della dissociazione. Tr: it. Raffaello Cortina, Milano 2007.
BROMBERG, P. (2011), L'ombra dello tsunami. La crescita della mente relazionale. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2012.
CARETTI, V., CRAPARO, G., SCHIMMENTI, A. (2013), Memorie traumatiche e mentalizzazione. Teoria, ricerca e clinica. Astrolabio, Roma.
FERENCZI, S. (1932), Diario clinico. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 1985.
LIOTTI, G, FARINA, B. (2011), Sviluppi traumatici. Eziopatogenesi, cinica e terapia della dimensione dissociativa. Raffaello Cortina, Milano.
LYONS-RUTH, K. (2012), Il trauma latente nel dialogo relazionale dell'infanzia. Tr. it. Borla, Roma.
MUCCI, C. (2014), Trauma e perdono. Raffaello Cortina, Milano.
La trasmissione transgenerazionale della relazione d'attaccamento tra genitori e figli rappresenta un fenomeno centrale nella comprensione delle dinamiche familiari e dello sviluppo psicologico individuale. Questo processo, che si svolge in gran parte al di fuori della consapevolezza, evidenzia come i modelli relazionali, emotivi e comportamentali dei genitori si trasmettano ai figli attraverso meccanismi complessi e stratificati.
Le prime osservazioni in merito risalgono ai lavori pionieristici di Sigmund Freud, che identificò nell’influenza delle relazioni infantili con le figure genitoriali un elemento determinante per lo sviluppo della personalità. Freud sosteneva che le esperienze emotive vissute nell’infanzia costituiscono il nucleo primario del funzionamento psichico e possono essere riattivate nelle generazioni successive attraverso contenuti inconsci che condizionano i rapporti con i figli.
Anna Freud, proseguendo su questa linea, approfondì il ruolo delle difese inconsce nell’interazione genitore-figlio mostrando come i genitori possano inconsapevolmente proiettare sui figli aspetti non elaborati della propria storia infantile.
Con l'avvento della teoria dell'attaccamento di John Bowlby si è aperta una nuova prospettiva sulla trasmissione transgenerazionale. Bowlby sottolineò che la qualità dell'attaccamento instaurato tra il bambino e le figure di accudimento influenza non solo lo sviluppo emotivo del bambino, ma anche la sua futura capacità di instaurare relazioni significative.
Mary Main e i suoi studi sulla “Adult Attachment Interview” hanno permesso di comprendere come i modelli di attaccamento degli adulti siano predittivi delle modalità relazionali che essi trasmettono ai propri figli, evidenziando una continuità intergenerazionale tra le rappresentazioni mentali dell’attaccamento.
A livello più profondo, autori come Donald Winnicott e Wilfred Bion hanno contribuito a chiarire i processi psichici che sottendono questa trasmissione. Winnicott ha introdotto il concetto di “madre sufficientemente buona” sottolineando l'importanza di una figura genitoriale capace di contenere e rispecchiare le emozioni del bambino, favorendo lo sviluppo di un senso di sé autentico. Quando questo processo viene ostacolato da carenze o traumi nella storia genitoriale, le difficoltà di regolazione emotiva possono essere inconsciamente trasmesse alla generazione successiva.
Bion, invece, ha sviluppato l’idea della funzione alfa, ossia la capacità della madre di trasformare le esperienze emotive non elaborate del bambino in pensieri comprensibili e integrabili. Quando questa funzione è compromessa, le esperienze traumatiche non mentalizzate possono essere trasmesse ai figli sotto forma di ansie primitive sottoforma di “contenuti grezzi” che il bambino si trova a gestire senza strumenti adeguati di elaborazione. In questo senso, la trasmissione transgenerazionale non si limita alla dimensione comportamentale, ma coinvolge profondamente il mondo interno e le capacità di simbolizzazione. Il ruolo delle narrazioni familiari implicite come i non detti, i segreti e i miti familiari possano costituire un’eredità invisibile ma potente, che plasma il modo in cui i figli percepiscono se stessi e il loro posto nel mondo. La trasmissione transgenerazionale si configura così come un processo complesso, in cui l’esperienza individuale e collettiva si intrecciano, dando luogo a continuità e trasformazioni.
Il contributo della psicoanalisi contemporanea si concentra sempre più sull’importanza della mentalizzazione e del lavoro di elaborazione per interrompere i cicli disfunzionali di trasmissione. Peter Fonagy e sua teoria sulla mentalizzazione sottolineano che la capacità del genitore di riflettere sui propri stati mentali e su quelli del figlio rappresenta un fattore protettivo cruciale. Questa consapevolezza consente di spezzare il perpetuarsi di modelli di attaccamento insicuri o disorganizzati, creando spazi per una maggiore libertà emotiva e relazionale.
In conclusione, la trasmissione transgenerazionale dell’attaccamento evidenzia l’importanza di riconoscere e lavorare sui contenuti inconsci e sulle dinamiche familiari profonde. Solo attraverso un processo di elaborazione e trasformazione è possibile costruire relazioni che promuovano non solo la sicurezza affettiva, ma anche la capacità di ogni individuo di vivere pienamente la propria autenticità.
L’amicizia, al pari delle relazioni amorose o familiari, rappresenta una componente fondamentale dello sviluppo psichico e del benessere emotivo dell’individuo. Questo legame richiede un costante nutrimento, fatto di attenzioni reciproche e accortezze che alimentano la relazione. In particolare, la reciprocità è un elemento centrale: essa implica una dinamica di scambio affettivo equilibrato, in cui ciascuno è disposto non solo a ricevere, ma anche a dare. Non si tratta di una mera simmetria, ma di un riconoscimento profondo dei bisogni e dei desideri dell’altro, che consente di costruire un dialogo autentico e paritario.
Un aspetto cruciale è il rispetto per l’altro, che implica la capacità di tenere conto dei suoi bisogni senza lasciare che l’egocentrismo o il narcisismo prendano il sopravvento. Quando l’altro viene relegato a semplice oggetto di gratificazione personale, si rompe l’equilibrio relazionale. L’egocentrismo è una tendenza a focalizzarsi esclusivamente sui propri bisogni, mentre il narcisismo patologico può portare a ignorare o svalutare le esigenze dell’altro, compromettendo il legame. In queste situazioni, l’amicizia rischia di spezzarsi, lasciando ferite profonde in chi si sente non accolto o non ascoltato.
La delusione che si prova quando il proprio bisogno di essere visti e compresi non trova risposta può avere un impatto significativo sulla psiche. Un buon amico non è solo colui che si confida, ma anche colui che sa ascoltare. L’ascolto attivo è una pratica complessa e preziosa: esso implica non solo l’udire, ma il comprendere e il rispondere empaticamente, creando uno spazio sicuro in cui l’altro si sente accolto e valorizzato.
In amicizia, è spesso necessario “sacrificare” una parte di sé per il bene dell’altro. Questo sacrificio non è una rinuncia, ma una manifestazione di empatia, intesa sia nella sua accezione emotiva, che permette di condividere i sentimenti dell’altro, sia in quella cognitiva, che consente di comprendere la prospettiva altrui. Mettersi nei panni dell’altro è un atto di generosità psichica che rafforza il legame e arricchisce entrambe le parti.
L’amicizia dunque è fondamentale nella vita di ciascuno. Essa non si limita a “fare da specchio”, ma crea senso di appartenenza e vicinanza, contribuendo al nostro equilibrio psichico e alla nostra capacità di affrontare le sfide dell’esistenza. Attraverso il legame amicale, possiamo scoprire una fonte inesauribile di supporto e condivisione, che ci accompagna nel percorso verso una maggiore consapevolezza di noi stessi e degli altri.
Iolanda Gaeta
I dettagli, spesso trascurati, rivelano dinamiche profonde di una persona. I segnali sottili, come piccoli gesti ed espressioni, manifestano emozioni e conflitti inconsci. Tra questi, i comportamenti ambigui emergono quando c'è discrepanza tra parole e azioni, come nell’aggressività passiva. Comportamenti indiretti come procrastinazione, evasività o sarcasmo nascondono rabbia non espressa e creano una tensione che mina la comunicazione, generando frustrazione. Riconoscere queste incongruenze ci consente di comprendere la complessità della psiche e accedere all'essenza profonda dell'individuo.